Kelly Reichardt

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
The Mastermind comincia come un “film del colpo grosso”, con tanto di titoli di testa che scorrono in verticale e di un accompagnamento musicale jazz (di Rob Mazurek) che sembra un omaggio alla colonna sonora di Audace colpo dei soliti ignoti firmata da Piero Umiliani, featuring la tromba malinconica di Chet Baker.
Ma dopo le prime scene il film racconta la peregrinazione solitaria di un uomo che ha perso scopo e direzione, e girovaga per gli Stati Uniti come un vagabondo all’epoca della Grande Depressione. In realtà J,B. può essere interpretato come il simbolo della generazione hippie, quella che ha disertato la guerra nel Vietnam (o ci ha lasciato le penne) e si è persa nelle droghe facili alla ricerca di un altro mondo possibile. In J.B. si respira lo smarrimento post sessantottino, e il contrasto fra lui e il padre “giudice supremo” è anche quello fra i figli ribelli e i padri autorevoli che ha caratterizzato quegli anni. Josh O’Connor presta la sua tenerezza e la sua simpatia naturale a un personaggio ambiguo e sfuggente, laconico e goffamente disperato, cui non riesce bene niente, anche se avrebbe il talento e le doti intellettuali per fare bene tutto. Il suo J.B. ha perso a strada in partenza: il suo rapporto con i figli è distaccato, quello con la moglie diventa sempre più improntato alla sfiducia (di lei), quello con i genitori alla sudditanza. L’incontro con due amici che hanno lasciato le proteste di piazza per rifugiarsi in campagna, come fecero molti contestatori delusi dalla lotta in prima linea, e l’ipotesi di fuggire in Canada, come facevano i renitenti alla leva, non fanno che sottolineare quanto J.B. sia in realtà estraneo a qualunque contesto. Il suo è un impaccio esistenziale privo di cattiveria, ma non privo di conseguenze catastrofiche, anche per le persone che gli stanno vicino e che dovranno imparare a tenerlo a distanza.
Kelly Reichardt è la regista, sceneggiatrice e montatrice di The Mastermind (titolo ironico che indica una “mente organizzativa” quando invece qui la mente di J.B. è un disastro annunciato), un film di una luminosità accecante quando inquadra l’America della palizzata bianca, via via sempre più buio quando racconta l’implosione progressiva del suo protagonista (la direzione della fotografia è di Christopher Blauvert, che ha accompagnato Reichardt in tutti i suoi film da Meek’s Cutoff in poi). La scena più esemplificativa di The Mastermind è quella in cui J.B. tenta di nascondere in un porcile i quadri rubati in tempo reale: una scena lentissima, faticosa e involontariamente comica, come lo è la vita del protagonista. La lentezza, caratteristica del cinema di Reichardt (e qui talvolta eccessiva), e il minimalismo espressivo sono funzioni dell’irrisolutezza esistenziale di James Blaine Moody, la cui parabola cinematografica è aritmica come la sua vita, ma non priva di un lunare incantamento. Accanto a Josh O’Connor fanno brevi apparizioni la cantante Alana Haim (la moglie Terri, vista in Licorice Pizza), Hope Davis (la madre), John Magaro (già coprotagonista del western sui generis della Reichardt First Cow) e Gaby Hoffman (figlia di Viva, musa di Andy Warhol) nei ruoli degli amici del protagonista trasferiti in campagna. Dietro di loro c’è un’America sparita lungo la linea di confine fra un passato tradizionalista e ottimista e un futuro progressista foriero di cocenti delusioni: quell’America cantata nel 1968 da Simon & Garfunkel nel brano omonimo, di cui un giovane uomo (e la nazione tutta) va in cerca a bordo di un Greyhound sentendosi perduto, “svuotato e dolorante, senza sapere il perché”
