Anna Negri

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Non che sia una vera novità il fatto in sé, ma è interessante come il cinema italiano – anzi: il documentario, qualunque cosa voglia dire oggi questa parola-mondo – stia interrogando il rapporto tra padri e figli o figlie, a maggior ragione quando il genitore non è solo figura privata ma soprattutto pubblica. Pensiamo al Nino D’Angelo omaggiato dal figlio Toni nell’accorato 18 giorni (un titolo che allude al periodo tra la nascita di Toni e il primo incontro con il padre, un tempo perduto da riconquistare), ma anche La verità migliore che Lorenza Indovina cerca per ritrovare il padre Franco, regista morto prematuramente forse a causa di un attentato, o Il figlio più bello con cui Stefano Rulli torna sul silenzio particolare di una relazione incardinata sull’autismo e sull’assenza, senza dimenticare la memoria di quel Tempo che ci vuole sul corpo a corpo tra Francesca Comencini e il padre Luigi.
E c’è qualcosa di tutti questi film che riecheggia in Toni, mio padre, che si rivela non solo il lavoro più bello di Anna Negri – la cui parca carriera ormai trentennale si districa tra cinema antiretorico e serialità industriale – ma anche quello che definisce e dà un senso a un percorso artistico. Perché sarebbe perfino riduttivo parlarne nei termini di un documentario che scandaglia il lessico familiare di un padre anziano e una figlia che l’accompagna nella stagione finale. Il titolo è una dichiarazione d’intenti: Toni, cioè Negri, il massimo teorico italiano del marxismo operaista, la figura centrale della militanza extraparlamentare, il presunto capo occulto del terrorismo politico, l’ideologo della contestazione antiglobalista. Toni è, dice Negri, mio padre. È il tentativo finale di una riappropriazione struggente, perfino disperata, di un uomo che si è offerto alla collettività sacrificando il rapporto di sangue sull’altare della lotta. L’atto conclusivo di una dialettica che brilla nel crinale tra asprezza e tenerezza, fondata sull’indisponibilità dell’uno a non abdicare al principio della rivoluzione – specialmente in un’epoca di revanscismi fascisti – e sull’incapacità dell’altra di fare pace con le carezze mancate, gli abbracci spezzate, le assenze pesanti. Emilio Vesce, Jaroslav Novak, Toni Negri, e Alberto Magnaghi al convegno di Potere Operaio all’università di Bologna, 1970 (Archivio Uliano Lucas)
Con ragione e sentimento, Negri mette in scena un conflitto tra posizioni che non cedono di un millimetro, con Toni quasi spiazzato se non addirittura infastidito dalle recriminazioni affettive della figlia e Anna forse sconcertata dall’irriducibilità paterna ad accettare le contraddizioni di una vita. E quello della regista, che usa gli home movies per restituire carne e consistenza ai fantasmi della memoria, è il punto di vista inedito di una generazione che è stata trascurata dagli adulti troppo bruciati dal mondo in fiamme, di una sopravvissuta – alla droga, alla dispersione, al malumore, all’angoscia, alla morte – che chiede il conto alla Storia, di una donna che cerca costantemente di costruirsi uno spazio. Eppure, così malinconico e accorato, è un film pieno d’amore e di vita.
