Ronan Day-Lewis

Sheffield, Inghilterra. Jem vive con la compagna Nessa e con il figlio di lei, l'adolescente Brian. Da qualche tempo il ragazzo è confuso e arrabbiato e ha quasi massacrato di botte un coetaneo. Per questo Jem parte in sella alla sua moto e s'immerge nella boscaglia. Con sé ha solo una parola d'ordine, delle coordinate geografiche e l'obiettivo di riportare a casa suo fratello Ray, che si è auto esiliato da anni dalla famiglia e dalla società, perché Brian adesso ha bisogno di lui.
Una storia di padri e di figli, in tutti i sensi. Ronan Day-Lewis, al suo debutto nel lungometraggio, l'ha scritta insieme a suo padre, Daniel Day-Lewis, il quale ha accettato di tornare sul set, dopo sette anni di distanza e l'annuncio di un possibile addio definitivo alle scene, per interpretare Ray Stoker, co-protagonista ma in realtà interprete assoluto di questo dramma ambizioso e plumbeo, che torna su un capitolo nero della storia del Regno Unito.
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Sheffield, Inghilterra. Jem vive con la compagna Nessa e con il figlio di lei, l’adolescente Brian. Da qualche tempo il ragazzo è confuso e arrabbiato e ha quasi massacrato di botte un coetaneo. Per questo Jem parte in sella alla sua moto e s’immerge nella boscaglia. Con sé ha solo una parola d’ordine, delle coordinate geografiche e l’obiettivo di riportare a casa suo fratello Ray, che si è auto esiliato da anni dalla famiglia e dalla società, perché Brian adesso ha bisogno di lui.
Una storia di padri e di figli, in tutti i sensi. Ronan Day-Lewis, al suo debutto nel lungometraggio, l’ha scritta insieme a suo padre, Daniel Day-Lewis, il quale ha accettato di tornare sul set, dopo sette anni di distanza e l’annuncio di un possibile addio definitivo alle scene, per interpretare Ray Stoker, co-protagonista ma in realtà interprete assoluto di questo dramma ambizioso e plumbeo, che torna su un capitolo nero della storia del Regno Unito. Una storia di padri e di figli, di scomode eredità, di segreti e silenzi che hanno scavato nella psiche e inciso dei traumi. Ci vuole quasi un’ora di film perché le relazioni tra i personaggi acquistino un senso: un tempo volutamente dilatato, ma non sempre sufficientemente sostenuto da un’idea di ritmo, fosse anche la giusta lentezza. Invece Anemone (titolo che ha anch’esso a che fare con una sorta di maledizione che passa di padre in figlio e con il gusto eccessivo del film per il simbolismo) sceglie di interrompere solo saltuariamente il trascinato passo del racconto con alcune sequenze iper frammentate e iper sonorizzate, che s’ispirano all’estetica dei videoclip musicali e rievocano i dipinti punk romantici della produzione pittorica del regista, ma è una scelta che prende definitivamente corpo solo nella seconda e più visionaria parte del film, lasciando la prima più ostica e sguarnita.
Difficilmente un attore meno straordinario di Daniel Day-Lewis avrebbe potuto mantenere la barra e risultare sempre e comunque emotivamente a fuoco in questo contesto senza appigli, in cui la narrazione si fa strada poco alla volta, con la stessa fatica con cui si parla di un dolore. Sono proprio i monologhi dell’attore a mandare avanti il racconto e la sua interpretazione a dare profondità alla ferita del personaggio, mentre Sean Bean, che interpreta il fratello Jem, gli offre la sua spalla solida e per lo più silente. Il personaggio di Ray Stoker porta anche inevitabilmente con sé un ricordo del Gerry Conlon di Nel nome del padre, e di nuovo, a distanza di anni, temi quali la religione, la giustizia (e il suo contrario) e l’orgoglio si mescolano con la questione nord-irlandese e prendono fuoco. Eppure superare il passato è possibile, sembra dire Anemone, la catarsi può aver luogo, se violenta come una grandinata e mistica come una visione sovrannaturale.
(…) Quello di Ronan è un dramma quasi concettuale, a volte spiritico, a volte visionario nell’osservazione sicura e potente di un uomo divenuto relitto, schiacciato dal peso delle proprie scelte. Un peso consumato dalla rabbia e dall’ossessione. Il protagonista è Ray, ex paramilitare che vive ormai da eremita in una casupola dispersa tra i boschi dello Yorkshire. Si è imposto una sorta di esilio, dopo un trauma risalente a vent’anni prima. Tuttavia, le cose però cambiano quando il fratello Jem, che intanto si è sposato con Nessa, ex compagna di Ray, lo va a trovare per chiedergli di tornare da suo figlio Brian, anch’esso consumato da una sommessa rabbia.
Sarebbe banale raccontare Anemone solo dalla prospettiva di Daniel Day-Lewis, ma d’altra parte è innegabile quanto il talento dell’attore catalizzi l’attenzione, impossessandosi della scena (duettando con un altro fuoriclasse come Sean Bean). La riempie, la plasma, la occupa secondo un criterio cinematografico libero da ogni sovrastruttura, trascrivendo – attraverso gli sguardi e attraverso le parole – lo stato psichico e fisico di un uomo distrutto. Istinto, tecnica, natura. Tra la razionalità e l’irrazionalità: l’attore inglese è categoria a parte. Perché è chiaro, il film di Ronan Day-Lewis non sarebbe stato lo stesso senza l’apporto emotivo (e produttivo) del padre (e pure l’attenzione sarebbe stata minore), al centro tra l’altro di due monologhi impetuosi e macabri. Nemmeno a dirlo, il cuore del film.
Potremmo però citare anche l’ottima colonna sonora di Bobby Krlic, dalle note estreme, quasi spigolose, la plumbea fotografia di Ben Fordesman, o gli afflati surreali e metaforici inseriti dal regista, interessanti ma probabilmente fin troppo costruiti secondo un metro estetico che sembra voler dimostrare più che mostrare, uscendo fuori dal testo e dal contesto per diventare – a tratti – una sorta di vetrina in cui mostrare le talentuose scintille registiche. Nel profondo, però, Anemone porta avanti il discorso sulla famiglia e sul passato. Miscelandole, scorticandone i profili per creare un unico blocco in cui tutto è sovrapposto. Riflette con decisione sul trauma come rifugio e scudo, masticando i rimorsi che appaiono e scompaiono come i fantasmi; discorsi legati da un dramma totale, che si appoggia sulle confessioni e sul dolore, codificando i graffi e la dolcezza attraverso la ricerca dell’allegoria, che sia solo suggerita o direttamente mostrata. Come una potente grandinata capace di riportare la quiete, ad anticipare un finale più luminoso e carico di commozione.
L’opera prima può essere croce e delizia. I maestri dicono che, quando si passa dietro la macchina da presa, bisogna raccontare qualcosa di vicino a noi. Ronan Day-Lewis è il figlio del miglior attore vivente: Daniel Day-Lewis, che da otto anni si era ritirato dalle scene. Il figlio diventa regista, e il padre lo accompagna, in una storia, appunto, di genitori a confronto con le nuove generazioni.
Il titolo è Anemone, come il fiore. Il suo nome deriva dal vento, e ha un doppio significato: può rappresentare la fragilità come la rinascita. Sono i due elementi cardine del film, le due facce che identificano i tormenti di una famiglia. Non vi vogliamo svelare molto. Un ragazzo aspetta a casa, è in crisi, ha le nocche sbucciate. La madre lo assiste. Un uomo parte in moto verso il bosco. Qui deve incontrare una figura venuta dal passato, piena di sofferenza e in attesa di ritrovarsi. In Anemone ci si perde.
È volutamente respingente, ermetico, fuori da ogni canone. Sarebbe troppo facile dire che la forma prende il sopravvento sulla narrazione. Bisogna fare un passo in più. Qui si avverte il vigore della prima volta, l’energia di chi vuole dominare il cinema, la forza di chi non ha ancora trent’anni. Ed è per questo che Anemone è un alieno, è controcorrente. L’incedere è misurato, prevalgono i silenzi. La parola esplode solo a tratti, in lunghi monologhi senza requie, in cui i protagonisti si mettono a nudo.
È un gioco a due tra Daniel Day-Lewis e Sean Bean. Il primo giganteggia, si conferma ancora ad alti livelli, il secondo gli fa da spalla, cerca di riportare l’ordine. In un film che è anche una preghiera perduta, in cui la religione si destreggia tra il diavolo e l’acqua santa, e i Testi Sacri non sono sempre un conforto. Anemone non è per tutti. Si fatica a penetrare tra le sue maglie, a volte eccede, si trasforma in un flusso di coscienza che sembra inarrestabile.
Ma poi la cinepresa si ferma. Si inchioda sui volti, nascono primi piani serrati, in cui la memoria si fa dolore, confessione. Ronan Day – Lewis realizza un esordio violento come una grandinata, che guarda all’oggi, alle guerre, ma anche ai conflitti tra giovani e adulti. In Anemone convivono più anime. Il film si rivela una danza tra opposti, un mistero sospeso tra mondo reale e onirico, tra ordine e caos. In un universo in cui basta uno sguardo per scatenare l’uragano. Due ore tempestose, piene di oscurità, anelando alla pace.
