Bird

Andrea Arnold

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Bailey ha 12 anni che sembrano dieci di più, perché è da sempre abituata a risolvere da sola i guai suoi e di chi le sta intorno. La sua famiglia più che allargata è scomposta: lei vive con il padre Bug e il fratello maggiore Hunter, figlio della ragazza che papà ha messo incinta a 14 anni, mentre la madre di Bailey ha avuto altri tre figli da uomini di passaggio, e al momento frequenta un tipo equivoco e violento, circondandosi di tossici. Bug sta per sposarsi con una donna conosciuta tre mesi prima, e Bailey rifiuta di andare al suo matrimonio: non ne può più del caos della sua esistenza e non sa come diventare adulta, nemmeno adesso che l'arrivo del ciclo le ha annunciato di essere biologicamente una donna. Le uniche creature che la mettono di buon umore sono gli animali - cani, cavalli, gabbiani, corvi, farfalle - e uno strano giovane uomo soprannominato Bird, che se ne sta appollaiato in cima ai palazzi del quartiere e cerca la sua famiglia, che un tempo abitava accanto alla madre di Bailey.
DATI TECNICI
Regia
Andrea Arnold
Interpreti
Nykiya Adams, Barry Keoghan, Franz Rogowski, James Nelson-Joyce, Jasmine Jobson, Rhys Yates, Joanne Matthews, Frankie Box, Jason Buda
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Andrea Arnold
Fotografia
Robbie Ryan
Montaggio
Joe Bini
Distribuzione
Lucky Red
Nazionalità
Gran Bretagna, USA, Francia, Germania
Anno
2024

Presentazione e critica

Bailey ha 12 anni che sembrano dieci di più, perché è da sempre abituata a risolvere da sola i guai suoi e di chi le sta intorno. La sua famiglia più che allargata è scomposta: lei vive con il padre Bug e il fratello maggiore Hunter, figlio della ragazza che papà ha messo incinta a 14 anni, mentre la madre di Bailey ha avuto altri tre figli da uomini di passaggio, e al momento frequenta un tipo equivoco e violento, circondandosi di tossici. Bug sta per sposarsi con una donna conosciuta tre mesi prima, e Bailey rifiuta di andare al suo matrimonio: non ne può più del caos della sua esistenza e non sa come diventare adulta, nemmeno adesso che l’arrivo del ciclo le ha annunciato di essere biologicamente una donna. Le uniche creature che la mettono di buon umore sono gli animali – cani, cavalli, gabbiani, corvi, farfalle – e uno strano giovane uomo soprannominato Bird, che se ne sta appollaiato in cima ai palazzi del quartiere e cerca la sua famiglia, che un tempo abitava accanto alla madre di Bailey. Bird è il quinto lungometraggio di finzione della Arnold e in qualche modo ne riassume il percorso: ci sono gli animali al centro come nel documentario Cow e nel corto Dog; c’è società blue collar e un personaggio scombinato e narcisista come in Fish Tank e nel corto Wasp; c’è la violenza delle emozioni e una natura imprevedibile come in Cime tempestose; e c’è l’ipercinesi giovane e incontenibile di American Honey. Bird tracima energia cinetica e si schiera dalla parte della sua protagonista preadolescente: e nessuno sa sintonizzarsi meglio con la confusione e il fervore teen (così come nessuno, nel cinema anglosassone, sa filmare con tanta empatia i bambini). In questo senso Arnold sembra anima gemella di Luca Guadagnino, con cui condivide l’interesse e la vicinanza profonda verso una parte della società spesso raccontata al cinema attraverso uno sguardo adulto e stereotipato. La camera a mano della regista segue la vita movimentata sulla quale Bailey non ha alcun controllo, anche se lei lo cerca proprio attraverso il cinema facendo continue riprese con il cellulare, prevalentemente per frapporre una distanza di sicurezza fra lei e le persone che incontra. “Hai trovato la tua gente?”, chiede Bailey a Bird, ma è la ragazza a non aver ancora trovato le persone con cui può riconoscersi, e che la facciano sentire al sicuro. L’uso della musica rispecchia il mondo schizofrenico in cui vive Bailey, un po’ white trash, un po’ punk, un po’ “daddy’s music”, fra i Coldplay e i Blur da cantare in coro e la voce struggente di Damon Albarn da ascoltare in silenzio. In Bird c’è un ranocchio che produce bava allucinogena e un personaggio che mette le ali, e soprattutto c’è la voglia di Andrea Arnold di raccontare i corpi in scena, coadiuvata da due degli attori che meglio sanno usare la propria fisicità – l’intenso Franz Rogowski e l’adrenalinico Barry Keoghan – e della giovane attrice protagonista costantemente in scena, Nykiya Adams.

Non tutto è a fuoco, Arnold procede per tentativi e digressioni, affastella eventi e immagini. Ma la sua vis cinefila, e la sua passione per le persone che restano ai margini, sono genuine e a tratti trascinanti. In altri momenti ci si chiederà dove si sia finiti, se Bird esista davvero e quanto si sia disposti a seguire la regista nel suo bailamme confusionario e colorato.

 

Movieplayer

C’è un posto dove stare nel mondo per Bailey? Non può scappare dalla famiglia disfunzionale come Star per unirsi al gruppo di venditori di riviste che percorre il Midwest in American Honey. Però non è neanche in trappola come la quindicenne Mia in Fish Tank. Il cinema di Andrea Arnold stavolta trova la fuga in una dimensione visionaria, quasi sulle tracce di un Truffaut versione fantasy ma ancora con echi del suo cinema sociale nella tradizione di quello britannico per descrivere il caos dei personaggi che la vita ha dilaniato. Non ha paura di volare Bird e neanche di schiantarsi a terra. Perché poi riparte, rimette le ali e prova ancora il decollo. È questa la ‘poesia del quotidiano’ del nuovo struggente film della cineasta inglese, dove la vera ribellione sta nell’imporsi di seguire i propri sogni. Ognuno dei personaggi cerca una vita diversa. Il padre di Bailey, Bug, si sta per sposare e vuole che la figlia faccia da damigella al matrimonio e indossi un vestito che la sua futura moglie le ha comprato. Lei non ne vuole sapere, si chiude nella stanza, piange e poi scappa. Corre senza sosta Bailey, alla ricerca del suo posto nel mondo. Non lo trova dalla madre, che vive con un compagno vilento e trascura le due sorelline. Può solo volare, ma nella vita di tutti i giorni non si può alzare da terra. Un giorno, in un campo, conosce uno strano personaggio, Bird. È vero, è un sogno oppure un’improvvisa apparizione.

Lo sguardo della regista resta potentissimo nell’inquadrare una realtà sociale come quella del sud-est dell’Inghilterra, tra violenze domestiche – la scena della ribellione contro il compagno violento della madre è un momento di cinema altissimo per come accarezza col suo sguardo le vittime in quella scena prima di un’improvvisa, magica liberazione – spedizioni punitive di una gang di ragazzini e personaggi che che consumano il proprio tempo proprio come Bug, interpretato da uno strepitoso Barry Keoghan, che forse oggi è la versione britannica di Timothée Chalamet. Ma abbraccia anche una dimensione fantastica, con i segni di una fiaba fantastica che potebbe accostarsi al cinema di Alice Rohrwacher è un modo di guardare all’adolescenza che è tra quelli che hanno tra le identità più forti nel panorama dell’attuale cinema europeo. Bird potrebbe essere guardato con gli occhi di Nykiya Adams, l’incredibile protagonista nei panni di Bailey che si porta addosso nel suo corpo inquieto slanci e turbamenti di Caitlin nella serie di Guadagnino We Are Who We Are. Ma anche con quelli di Bird, Franz Rogowski che è un alieno piombato sulla terra, un angelo che potrebbe arrivare chissà da quale universo oppure proprio da Wenders che è al centro di uno dei momenti più toccanti del film, quando va con Bailey alla ricerca del padre che ha sempre creduto che suo figlio era morto. Anche Bird non fa sconti, è durissimo. Le immagini che la protagonista filma col suo telefonino (le minacce del compagno della madre) hanno lo stesso impatto di quelle di Jackie quando dalle telecamere di sorveglianza rivede all’improvviso l’uomo che ha investito e ucciso suo marito sua figlia in Red Road. Stavolta però trova la speranza non tanto in un cambiamento ma nel rimettere di nuovo in discussione il rapporto tra i personaggi. Quello di Andrea Arnold è un cinema che cerca i suoi padri (ancora Truffaut ma anche Ken Loach), che esplode dal momento in cui Bug va sul monopattino assieme ai figli Bailey e Hunter per aiutare quello maggiore che vuole raggiungere la sua ragazza in Scozia e un finale bellissimo che diventa una danza iniziata già dal momento in cui Bug canta a squarciagola Lucky Man dei The Verve nel giorno del suo matrimonio. Il volo stavolta è altissimo, quello di un cinema mutante che resta sempre fedele all’urgenza sociale ma si apre a 360° per mostrare che forse sì, tra la merda di tutti i giorni, ci può essere un posto per tutti. È un cinema che, dietro il suo stile naturalista, con la camera nervosa è tutto rabbia, istinto, passione. Selvaggio e pieno di grazia.

 

Sentieriselvaggi

(…) Trovando un miracoloso equilibrio tra la verace e sapida rappresentazione del sottoproletario britannico e una deriva poetica, lirica, ma anche fantasy così preponderante, Andrea Arnold trasforma il suo sesto lungometraggio di “finzione” in un’opera a suo modo quasi inclassificabile, dotata proprio per questo motivo di una libertà innata, che le permette di non doversi accomodare in regole stantie e abitudini dello sguardo. In tal senso svolge un ruolo non indifferente anche la fotografia in pellicola di Robbie Ryan (sulla Croisette anche con Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos: chissà che un contributo tecnico non possa sottolineare la qualità e la poliedricità del suo lavoro), perché a sua volta si posiziona in un luogo dello spazio/tempo non più contemporaneo, ma materico nel saper tramutare in immagine ciò che gli vive innanzi. Come fosse tornata ai tempi di Fish Tank, ma con continue deviazioni fiabesche, Andrea Arnold tratteggia un romanzo di formazione di una dolcezza straripante, innamorata com’è di (quasi) tutti i suoi personaggi, a partire da lo scombiccherato Bug che ama i suoi figli – che ha avuto poco più che bimbo – di un affetto magari non sempre facile da dimostrare ma densissimo. Bailey, questa dodicenne riottosa che non vuole vestirsi da ragazza-tipo per il matrimonio del padre e va in giro con Bird per aiutare questo bizzarro uomo che passa le sue giornate appollaiato sui tetti dei palazzi a ritrovare il padre perduto, è raccontata con uno sguardo altrettanto amorevole, come se la macchina da presa dovesse di volta in volta carezzarla nell’accompagnarla in giro per un mondo che sarà pure devastato – lo squat non è certo edulcorato nella sua rappresentazione – ma sa ancora commuoversi sulle note di The Universal dei Blur. Ed eccolo l’ultimo trait d’union tra vitalismo realistico e svolazzo lirico, la colonna sonora brit-pop in cui si piazzano gli uni accanto agli altri i succitati Blur e i Verve di Lucky Man, i Coldplay di Yellow e soprattutto i dirompenti Fountain D.C. di Too Real, che spinge l’udito in direzioni post-punk. Tra Ken Loach e Little Feet di Alexandre Rockwell Bird è un’opera fiammeggiante, liberissima, che mescola senza alcuna paura gli elementi più eterogenei senza preoccuparsi della giusta inquadratura, della giusta luce, e di tutti quei perfezionismi anodini di cui è invaso l’arthouse contemporaneo.

 

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