Black tea

Abderrahmane Sissako

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Aya ha lasciato dinanzi all'officiante colui che doveva diventare suo marito. Ha abbandonato poi la Costa d'Avorio per andare a vivere a Guangzhou (Canton) nel quartiere denominato "Chocolate City" perché abitato da numerosi immigrati africani. Qui lavora per Cai, un coltivatore e raffinato estimatore delle più diverse specie di piante del the. Tra i due nasce progressivamente un'intimità non priva di problemi.
DATI TECNICI
Regia
Abderrahmane Sissako
Interpreti
Ke-Xi Wu, Michael Chang, Han Chang, Nina Melo
Durata
110 min.
Genere
Drammatico
Sentimentale
Sceneggiatura
Abderrahmane Sissako, Kessen Tall
Fotografia
Aymerick Pilarski
Montaggio
Nadia Ben Rachid
Musiche
Armand Amar
Distribuzione
Academy Two
Nazionalità
Francia, Lussemburgo, Taiwan, Mauritania
Anno
2024

Presentazione e critica

Storia d’amore interrazziale e interculturale, l’ultimo film di Abderrahmane Sissako è una pellicola che parla direttamente all’anima, come spiega la nostra recensione di Black Tea. Il regista originario della Mauritania fa ritorno dietro la macchina da presa a un decennio di distanza da Timbuktu per raccontare l’incontro tra due individui separati da etnia, famiglia e trascorsi, ma uniti dalla coscienza di voler rivendicare il proprio impegno alla ricerca della felicità. Ma piuttosto che esplicitare, il film lavora per ellissi e per suggestioni affidando alla raffinatezza del linguaggio filmico e alla bravura degli interpreti il compito di esplicitare il non detto.
Chiarissima, invece, la volontà di Aya, protagonista di un intenso incipit ambientato in Costa d’Avorio. È un secco no della donna, che rifiuta di sposare il fidanzato fedifrago e abbandona il paese natale per cercare la sua strada in Cina, a inaugurare il suo percorso di emancipazione. Ma il film di Sissako è anche e soprattutto un ponte tra due culture visto che, dopo una lunga dissolvenza incrociata, ritroviamo Aya perfettamente integrata a Guangzhou, nel vivace quartiere di Chocolate City, popolato da una minoranza proveniente dall’Africa Occidentale. Come i suoi concittadini, Aya si esprime in un fluente mandarino pur conservando le tradizioni natie nelle acconciature vistose e negli abiti colorati che sfoggia, ma il suo incontro con l’Oriente ci apre gli occhi su forme di immigrazione ben più controllate di quelle occidentali di cui sappiamo poco o niente.
A Guangzhou, Aya sembra aver trovato la sua dimensione nel negozio di tè di Cai, dove apprende i segreti della cerimonia del tè grazie ai pazienti insegnamenti dell’uomo. Le loro lunghe sedute nel retrobottega, tra preparazione della bevanda, esplorazione degli aromi ed esecuzione perfetta dei gesti che vanno a comporre il rito, acquistano il sapore di un corteggiamento. In un film che racconta una relazione tra due persone negando alla vista qualsiasi manifestazione affettiva, le lezioni impartite da Cai ad Aya sono intrise di una profonda sensualità che si sprigiona nei gesti e negli sguardi.

Ma è il film in toto a sostituire l’azione con piccoli dettagli significanti, mettendo alla prova lo spettatore meno ricettivo. Abderrahmane Sissako privilegia i silenzi alle parole e i gesti dei personaggi sono spesso più esemplificatori dei dialoghi, poetici, ma misurati. Ogni singola parola sembra celare un mondo di emozioni, che gli interpreti evocano passando con fluidità dal mandarino al francese, dall’inglese al portoghese, motivo per cui il film va visto in lingua originale per non perdere la ricchezza di sfumature delle loro performance.

Ondivago e introspettivo, Black Tea è un film dal passo languido che celebra la poetica delle piccole cose e della connessione tra individui attraverso la ricerca delle bellezza. Bellezza che si manifesta nelle variopinte vesti africane indossate dai personaggi, nell’elegante composizione del quadro, nelle musiche melanconiche e nella fotografia nitida e ricca di toni caldi dell’eclettico Aymerick Pilarski. La pellicola di Abderrahmane Sissako ci regala un’immersione nell’universo emotivo dei due protagonisti e nella loro concezione di amore, reciproco o di Cai nei confronti del figlio adolescente e della figlia perduta, con cui si ricongiungerà in un incontro tanto struggente quanto fugace vero o semplicemente sognato. Nonostante il dominio del sentimento, il regista non rinuncia ad affrontare temi sociali a lui cari quali immigrazione e integrazione. A infrangere l’armonia tra popoli conquistata attraverso l’incontro tra le culture di Chocolate City, che nella visione idilliaca del regista sembrano attratti da una sorta di fascinazione reciproca, intervengono gli anziani genitori dell’ex moglie di Cai in una tirata razzista contro gli africani a cui si oppongono dapprima l’appassionata arringa del figlio ventenne (il regista sembra identificare la speranza del cambiamento nelle nuove generazioni) e poi il canto melodioso di Aya, nascosta da Cai in camera da letto per non turbare con la sua presenza la fragile armonia familiare.
Ancora una volta la bellezza viene valorizzata come forza suprema in grado di sconfiggere ignoranza, ottusità e odio, ma la scena risulta talmente estranea dal contesto da sembrare forzosamente “appiccicata” per portare avanti il discorso socio-politico che sta a cuore al regista. Con un’eccelsa confezione e l’adesione a una simbologia tipica del cinema orientale, Sissako sembra legittimare la discutibile morale di Cai, impegnato più ad autogiustificare gli errori commessi in passato che a costruire un futuro possibile con Aya, in un finale criptico e circolare dal retrogusto amaro che solleva molti interrogativi.

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Noi occidentali, pur così solerti a dirci attenti ai mondi degli altri, abbiamo il limite di pensare che il pianeta ruoti attorno a noi. Basta una storia diversa dalle altre, come quella raccontata in Black Tea, per renderci conto che esistono migrazioni che non ci riguardano e incontri tra culture che invece proprio nella loro diversità, nell’unione tra queste diversità, finiscono col riguardarci eccome. In questo caso è grazie all’antico rituale del tè che queste diversità si incontrano, finendo per riconoscersi e diventando un tutt’uno inscindibile.

Black Tea veicola un messaggio importante: il coraggio di non lasciarsi sopraffare dagli schemi che la società ci impone. La vita di ogni persona sembra già programmata da un ripetersi di eventi, tutti uguali, che non lasciano alternativa: nascere, crescere, lavorare, sposarsi, avere figli. E guai a chi osi deviare da questa linea retta. Il vero dramma, ci ricorda Sissako, è semmai non riuscire a lasciare un porto sicuro nel quale non ci riconosciamo più. Oggi, e non solo in Africa, ma spesso persino dietro la porta accanto alla nostra, viene visto come un atto rivoluzionario. Al contrario, questa pellicola ci insegna che è un gesto di amor proprio. Per un motivo semplicissimo. Ognuno di noi ha un dovere prima di tutto con sé stessi quando nasce: trovare la propria felicità, o almeno provarci. Senza accontentarsi. Felicità che può nascere ovunque, lontano da quella che noi chiamiamo casa, che magari ha il pregio apparente di donarci una finta serenità, ma che spesso finisce col diventare una prigione.Sissako ci ricorda di osare, e di sperimentare. Ci ricorda che tra la menzogna e la verità dei sentimenti, vale la pena di scegliere la seconda. E che lasciare la propria zona di conforto è sì un atto coraggioso, ma talvolta necessario per essere fedeli a sé stessi. Perché – sembra dirci – la felicità è un diritto di tutti, senza distinzione tra colore della pelle o etnie diverse. Ci ricorda anche che l’amore non conosce confini. Insomma ci ricorda di vivere.

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