Cotton queen

Suzannah Mirghani

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In un villaggio di coltivatori di cotone in Sudan, l’adolescente Nafisa è cresciuta con le storie eroiche di resistenza ai colonizzatori britannici che le racconta la nonna Al-Sit, matriarca della comunità. Quando un giovane uomo d’affari arriva dall’estero con un nuovo piano di sviluppo e un cotone geneticamente modificato, Nafisa si ritrova al centro di un gioco di potere che deciderà il futuro del villaggio. Acquistando consapevolezza della propria forza, Nafisa si mette in viaggio per salvare i campi di cotone - e se stessa. Né lei né la sua comunità saranno più le stesse. Suzannah Mirghani, prima regista sudanese donna a firmare un lungometraggio di finzione, costruisce un racconto epico e intimo insieme, sospeso tra realismo e magia, che attraversa tre generazioni di donne: le nonne custodi della memoria, le madri pragmatiche, le figlie in cerca di libertà. Cotton Queen indaga la continuità delle forme di dominio – dal colonialismo al capitalismo globale – e la resilienza delle comunità femminili, capaci di trasformare i vincoli in energia creativa. Girato in Egitto a causa della guerra in Sudan, con il contributo di comunità di rifugiati sudanesi, il film diventa anche un atto di resistenza culturale e un omaggio al potere trasformativo del cinema.
DATI TECNICI
Regia
Suzannah Mirghani
Interpreti
Mohamed Musa, Haram Basher, Mihad Murtada, Talaat Farid
Durata
89 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Suzannah Mirghani
Fotografia
Frida Marzouk
Montaggio
Amparo Mejías, Simon Blasi, Frank Müller
Musiche
Amin Bouhafa
Nazionalità
Arabia Saudita, Germania, Francia, Palestina, Qatar, Egitto
Anno
2025

Presentazione e critica

La regista sudanese-russa Suzannah Mirghani presenta il suo debutto nel lungometraggio, Cotton Queen, in concorso alla Settimana Internazionale della Critica, che si terrà parallelamente all’82ª Mostra del Cinema di Venezia dal 27 agosto al 6 settembre.

Il film, una coproduzione internazionale tra Germania, Francia, Palestina ed Egitto, racconta la storia di Nafisa, un’adolescente che cresce in un villaggio sudanese dedito alla coltivazione del cotone. Cresciuta ascoltando i racconti ispiratori della nonna sulla resistenza contro i colonizzatori britannici, il mondo di Nafisa viene sconvolto dall’arrivo di un giovane imprenditore straniero, portatore di una visione di sviluppo e cotone geneticamente modificato. Con l’aumentare delle tensioni tra tradizione e progresso, Nafisa diventa inaspettatamente l’epicentro di una lotta di potere che determinerà il destino del villaggio. Nel tentativo di proteggere la terra e definire il proprio futuro, intraprenderà un percorso di autoaffermazione e trasformazione.

Cotton Queen è scritto e diretto da Mirghani, che è anche ricercatrice e redattrice presso la Georgetown University in Qatar ed ha ottenuto riconoscimenti internazionali con il suo cortometraggio del 2020, Al-Sit, vincitore del Premio Canal+ a Clermont-Ferrand e attualmente disponibile su Netflix Medio Oriente. Tra i suoi lavori più recenti figurano Virtual Voice (2021), di stampo sperimentale, e Kamala Ibrahim Ishag: States of Oneness (2022), commissionato dalle Serpentine Galleries. Durante la fase di sviluppo, Cotton Queen ha vinto l’ArteKino International Award all’Atelier della Cinéfondation di Cannes nel 2022. Più recentemente, è stato uno dei progetti presentati all’incontro dell’industria cinematografica del Doha Film Institute, Qumra.

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Sudan magico – Intervista a Suzannah Mirghani

È bastato un cortometraggio di successo per fare della talentuosa Suzannah Mirghani uno dei volti del nuovo cinema sudanese. Il suo Al-Sit (2020), passato in concorso in festival prestigiosi quali Seattle e Tampere dopo l’anteprima internazionale a Clermont-Ferrand, ha infatti vinto premi e convinto critica e pubblico, mantenendo vivo l’interesse del circuito festivaliero nei confronti di una cinematografia giovane e combattiva, emersa dalle macerie del regime di Omar Al-Bashir nel 2019 tra lo stupore generale. Prodotto in autonomia, con però un fondamentale contributo da parte del Doha Film Institute, Al-Sit è un corto di grande impatto, dall’innegabile forza visiva, capace di fondere con abilità realismo magico e critica sociale nel cangiante affresco di un Sudan arcaico e rurale in cui il destino della terra e dei suoi rigogliosi campi di cotone si lega simbolicamente a quello di Nafisa, dolce ragazzina data in sposa al figlio di avidi imprenditori di città. Sullo sfondo, la Al-Sit del titolo, una matriarca potentissima, laconica custode della tradizione. La storia di Al-Sit costituisce inoltre la base del successivo progetto di Mirghani, il lungometraggio Cotton Queen.

Tu hai una storia familiare molto interessante che intreccia Russia e Sudan.

Sì, ho un background misto: mio padre è del Sudan, mentre mia madre è russa. Ma, come amo dire sempre, ci sono letteralmente migliaia di me, di russo-sudanesi. È una conseguenza del fatto che, all’epoca, l’URSS invitava studenti dall’Africa e da tutto il mondo arabo. Offrivano loro delle borse di studio, e alla fine molti di questi giovani arabi e africani sposavano delle donne russe. Sono nata in Sudan ma, quando avevo circa due anni, ci siamo trasferiti a Londra. Dopo siamo ritornati in Africa, sempre seguendo il lavoro di mio padre, e abbiamo anche vissuto a Cipro e a Doha. È stata una vita da nomadi, ora vivo in Qatar da quindici anni.

Quando è nata la tua passione per il cinema?

Ho sempre amato il cinema. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione ho iniziato a occuparmi di pubblicazioni accademiche, ma l’idea di fare film era sempre lì, costantemente. Mi sono trasferita a Doha nel 2006 e tre anni dopo è stato creato il Doha Film Institute che, con i suoi workshop e le sue attività, mi è subito sembrato una grande opportunità. Si può dire anzi che la mia carriera cinematografica e l’affermazione del DFI siano proprio andate mano nella mano.

Di cinema sudanese si è iniziato a parlare nel 2019, a seguito della rivoluzione e dei successi a Berlino e Venezia di Suhaib Gasmelbari e di Amjad. Prima di allora, per i cinefili, il tuo paese semplicemente non esisteva. Avevi la sensazione di essere parte di una qualche tradizione cinematografica quando hai iniziato a occuparti di regia? Oppure all’epoca ti sentivi completamente sola con le tue idee e i tuoi progetti?

I miei primi corti, girati a Doha, non avevano nulla a che fare con il Sudan. Andare nel mio paese a fare cinema era un qualcosa che non potevo nemmeno immaginare, non mi è mai nemmeno passato per l’anticamera del cervello. Innanzitutto perché era proibito: la cultura cinematografica non era certo celebrata dal regime e, per un regista, ottenere i permessi era difficilissimo. Quando ho iniziato a pensare di scrivere un film per il Sudan e sul Sudan, poi, la rivoluzione non aveva ancora avuto luogo. Nella mia testa Al-Sit doveva restare una sceneggiatura e nient’altro. Ma con la rivoluzione tutto è diventato una possibilità. Mi sono resa conto che la mia poteva essere più di una semplice storia, che avrei potuto realizzare un vero film in Sudan. L’anno del successo del Sudan ai festival avevamo il morale alle stelle. C’erano tanto entusiasmo e tante, tantissime aspettative. Durante la lavorazione di Al-Sit si percepiva realmente quanto l’orizzonte delle persone si fosse ampliato e come per loro ogni cosa fosse possibile. Quindi sì, sono stati momenti molto eccitanti e di questo devo ringraziare i filmmaker sudanesi che mi hanno preceduto: Amjad, Suhaib, Marwa Zein e tutti gli altri. (…) è come se avessimo pensato tutti la stessa cosa allo stesso momento… Credo anche che sia stato determinante il sostegno economico che abbiamo ricevuto dalle istituzioni cinematografiche straniere. È grazie a questi fondi che abbiamo potuto realizzare i nostri film e, in un certo senso, mettere in piedi il cinema sudanese.

Girare in Sudan che tipo di esperienza è stata per te?

Pur essendomene andata dal Sudan da piccolissima, il paese fa comunque parte della mia storia, della mia formazione. Però faccio parte della diaspora, e dunque il mio modo di vederlo e capirlo è influenzato dalle comunità sudanesi che si sono formate all’estero. Prima di Al-Sit non ero stata in Sudan per alcuni anni, perciò tutto mi sembrava nuovo, e non solo per via della rivoluzione. Era nuovo per me, a livello intimo, personale. Non penso che si possa dire di provenire da un posto preciso, perché quel posto cambia in continuazione, anche perché, a livello cinematografico, in Sudan non abbiamo punti di riferimento: il cinema lo stiamo creando noi, ce lo stiamo inventando. Nel momento in cui fai un film di finzione su un paese, tendi a inserire tutti quegli elementi di cui hai memoria e che ti legano a quella realtà. Per me le favole sono una parte molto importante della cultura sudanese. Tutti i personaggi al centro del mio film – a cominciare da questa nonna che possiede la saggezza e che è più di una donna, una specie di essere antico – hanno un che di magico, perché magiche sono le storie che ricordo e con cui sono cresciuta.

Possiamo dire allora che il tuo è un Sudan idealizzato?

Decisamente. Un Sudan idealizzato, e un Sudan delle possibilità.

Il pericolo di cadere nella trappola dell’orientalismo, dell’esotico cartolinesco lo avevi messo in preventivo?

Al momento il cinema sudanese non corre il rischio di scadere nel kitsch: è ancora troppo presto. Tutti noi stiamo imparando questa nuova lingua cinematografica, e il pubblico sta vedendo il Sudan sullo schermo per la prima volta.

Quella del realismo magico però è una scelta molto rischiosa. Va maneggiato con cura.

Credo che troppo spesso noi adulti tendiamo a dimenticare che è innanzitutto attraverso le favole che impariamo a vedere il mondo. Personalmente, adoro il realismo magico perché è il punto di incontro tra la realtà che si vuole filmare e la finzione che si cerca di creare. Per me il cinema è magia, sempre e comunque. Non importa se stai facendo un documentario o della fiction: anche al livello più elementare, il cinema mantiene sempre un qualcosa di magico nel modo in cui ti cattura e ti trasporta altrove. Non penso che cinema e magia possano essere separati.

 

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