Ferzan Ozpetek

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Fine anni ’70. Alberta e Gabriella Canova sovrintendono una grande sartoria specializzata in costumi per il cinema e il teatro: un microcosmo tutto al femminile del quale fanno parte la capo sarta Nina, che ha un figlio hikikomori ante litteram, la ricamatrice Eleonora, vedova con una nipote ribelle, Beatrice, la tingitrice Carlotta, la modista Paolina con un figlio piccolo che si nasconde nella stanza dei bottoni (quelli per gli abiti, non quelli del Pentagono), le sarte Nicoletta, malmenata picchiata dal marito Bruno, e Fausta, single ironica e “allupata”, più l’ultima arrivata, la giovane stagista Giuseppina. La cuoca del palazzo che ospita la sartoria è l’ex ballerina Silvana che ha una parola di conforto, e un pasto abbondante, per tutti. Quando la costumista premio Oscar Bianca Vega commissiona alla sartoria Canova i costumi per il suo prossimo film le lavoratrici si buttano a capofitto nell’impresa, avendo cura di non fare mai incontrare la regina del teatro Alida con la nuova promessa del cinema Sofia. Vicino ad Alberta e Gabriella c’è la zia Olga, sorella di una madre scomparsa troppo presto ma ancora ben viva nei cuori delle figlie, come lo è la mamma di Ferzan Ozpetek nel suo.
Diamanti si apre e chiude con una di quelle tavolate che sono diventate un simbolo del cinema, e del modo di intendere la vita, di Ozpetek. Intorno al desco di apertura siedono le attrici del film e lo stesso regista, intento ad annunciare loro le sue intenzioni e ad assegnare i ruoli. “Ci saranno in tutto quattro uomini”, annuncia fieramente: e di fatto i personaggi maschili nel film sono meramente di contorno. Più che al Pedro Almodovar cui all’inizio della carriera veniva paragonato, Özpetek richiama qui il Francois Ozon di Otto donne e un mistero, dove gli uomini sparivano completamente (uno per mano di una delle protagoniste), e più che a Douglas Sirk strizza l’occhio al Leo McCarey di Un amore splendido. “Non c’è niente di quello che ti aspetti”, annuncia Ozpetek alle sue attrici, e invece Diamanti è esattamente quello che ci aspettiamo dal miglior Özpetek, quello che ama in modo incondizionato le sue donne, e viene da loro ricambiato con fiducia e generosità. Le donne che popolano la sartoria Canova possono litigare, insultarsi e prendersi in giro ma non si pugnalano alle spalle: non sorprende che alla sceneggiatura, oltre al regista, ci siano due mani femminili, Carlotta Corradi (anche autrice del soggetto) ed Elisa Casseri. Questo senso di “sorellanza” è incarnato al sommo grado dalle due protagoniste, legate tanto dall’affetto quanto da ricordi dolorosi che affrontano in modo speculare e contrario: Alberta passandoci sopra come uno schiacciasassi, Gabriella schivandoli accuratamente. Luisa Ranieri e Jasmine Trinca interiorizzano completamente i rispettivi ruoli, acquisendo fisicamente l’una una durezza programmatica, l’altra una negazione di sé che sfiora l’annullamento (mai le occhiaie di Trinca sono risultate tanto simboliche).
Al centro c’è anche il rispetto di Özpetek per il lavoro sartoriale, che combina pazienza e precisione, estro e concretezza, e in particolare l’attenzione che chi crea costumi per lo spettacolo dà al rapporto fra i personaggi e il loro abito di scena, che dev’essere ispirazione e rafforzamento, veicolare il movimento del corpo e farsi gabbia solo per trasmettere l’idea di prigione. Ozpetek però continua a comunicare primariamente attraverso i volti e gli sguardi: fra sorelle, fra amanti, fra genitori e figli, fra i bambini e il mondo. Sono sguardi pinei di passione e di paura, sofferenza e sollievo. Tutto il cast corale è in forma smagliante, e svettano Mara Venier nei panni dimessi di Silvana, Milena Mancini in quelli di Nicoletta e Milena Vukotic nel ruolo della zia Olga. Ma è una gara di bravura e Lunetta Savino, Paola Minaccioni e Geppi Cucciari gestiscono le parentesi comiche alleggerendo una trama che talvolta vira al melò. Vanessa Scalera è come sempre potente nel ruolo di Bianca Vega, che comanda le donne ma si lascia intimidire davanti all’unico uomo (Stefano Accorsi, nei panni del regista del film per cui Vega crea i costumi). Ozpetek compare occasionalmente fra le sue attrici, a ricordarci metacinematograficamente che questa è una messinscena polifonica. E a proposito di suoni, Diamanti gestisce bene l’alternanza fra le musiche originali di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, le canzoni di Mina e certi silenzi che arrivano improvvisi a zittire la scena. Il montaggio di Pietro Morana non indugia, se non sui tipici primissimi piani del regista. Il pubblico seguirà con partecipazione questa storia al femminile, che tuttavia non dimentica di rappresentare l’umanità.
In Diamanti, la casa non è il rifugio di amore, sicurezza e certezza, ma un luogo dove si è costretti ad affrontare i propri demoni interiori, quelli che minacciano di danneggiare la nostra esistenza. Senza l’amore, la sorellanza e il senso di unione, la loro figura all’interno della casa sembra quasi dissolversi, rivelando tutte le tristezze e debolezze che, una volta varcata la soglia della sartoria, vengono magicamente alleviate. Proprio a partire dal concetto di casa si può cogliere la natura ossimorica della pellicola. È un film che esplora l’unione dei contrari, l’abbraccio delle diversità e la loro accettazione e inclusione. La storia è popolata da personaggi che sembrano essere nulla, eppure sono tutto; che appaiono felici, ma in realtà sono tristi; che si mostrano diversi, ma sono profondamente simili. Sono figure che non amano, ma al contempo amano con tutto il cuore. Diamanti non è solo un film che celebra l’eleganza della moda, ma anche quella degli sfondi, dei movimenti e delle musiche. Ferzan Özpetek è il narratore invisibile, ma in alcuni momenti – soprattutto nel prologo, nell’intermezzo e nell’epilogo – esce allo scoperto, diventando una presenza fisica, un’entità che afferra la mano dello spettatore e lo guida nella storia. La figura del regista all’interno dell’opera simboleggia cambiamento e maturazione: entra nel film, lo crea e poi lo rivive una volta concluso, per risentirne, attraverso odori, carezze e visioni, il sapore di un’infanzia che si fa sempre più distante.
Com’è ovvio e intuibile sono le donne i diamanti (affatto grezzi) che può maneggiare Özpetek, che qui si lancia in una sorta di gineceo con ben diciotto protagoniste, di fatto il non plus ultra o quasi del sistema attoriale femminile italiano: nel costruire un racconto tutto attorno a una celebrata sartoria romana degli anni Settanta, così importante da rivestire un ruolo di non poco conto nell’immaginario – ovviamente fittizio – dell’epoca (c’è anche una battuta che sa un po’ di pleonastico, e che serve al gioco tutto interno della vita come rappresentazione: “vuoi fare la costumista e non sai chi è Piero Tosi?”), si passa in rassegna il tratto distintivo dell’approccio autoriale del regista, tra mélo che si maschera a tratti da commedia all’italiana, soprattutto per l’inserimento di personaggi a uso e consumo di tale dialettica – ascoltare per credere le battute pronunciate da Geppi Cucciari, tanto per fare un esempio –, sorelle in contrapposizione, e poi ancora malattie, lutti insuperabili, problematiche nel rapporto con l’altro sesso, e chi più ne ha più ne metta. In tal senso, nella superficie liscia delle cose in cui Özpetek ama rimanere, appare davvero interessante che il film sia strutturato ricorrendo al meta-linguaggio, con le succitate diciotto attrici che vengono chiamate sul set dal regista nelle vesti di se stesso per interpretare proprio quel Diamanti che quindi a conti fatti non esiste neanche nella finzione scenica come verità, ma solo come suo specchio riflettente. Così come le sorelle Alberta e Gabriella Canova, incarnate da Luisa Ranieri e Jasmine Trinca, vivono tra broccati e simulazioni di realtà storica, dovendo lavorare a un film ambientato nel passato con tutte le difficoltà che ciò comporta, allo stesso modo il regista sembra solo sfiorare quel multiforme universo femminile che fa incontrare, convivere, e che gli permette di ritornare a quel cinema della convivialità che è un punto fermo fin dagli esordi – che restano anche le opere più coinvolgenti e rilevanti della sua filmografia.