Familiar touch

Sarah Friedland

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L'anziana vedova Ruth si prepara nella sua grande casa per una cena con un giovane uomo che non conosce. Si tratta, in realtà, di suo figlio Steven, che lei non riconosce perché sta perdendo la memoria e la consapevolezza di chi è e chi è stata in passato. Ruth sta per essere accolta in una casa di riposo per anziani, la Bella Vista, e Steven è lì per accompagnarla. Arrivata nella struttura, la donna è accolta dalla badante Vanessa, gentile e premurosa, ma fatica a capire la nuova collocazione. Coi giorni Ruth passa da momenti di lucidità ad altri di smarrimento, vivendo comunque liberamente la sua vita e i suoi desideri di donna anziana.
DATI TECNICI
Regia
Sarah Friedland
Interpreti
Kathleen Chalfant, H. Jon Benjamin, Katelyn Nacon, Andy McQueen, Carolyn Michelle Smith, Alison Martin, London Garcia
Durata
90 min
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Sarah Ema Friedland
Fotografia
Gabe Elder
Montaggio
Kate Abernathy, Aacharee Ungsriwong
Distribuzione
Fandango Distribuzione
Nazionalità
USA
Anno
2024

Presentazione e critica

Un’anziana si muove con familiarità nella sua casa luminosa, con ampie finestre da cui si vede un bel giardino. All’interno della sua quotidianità ordinata, in cui tutto sembra essere perfettamente al proprio posto, notiamo presto un piccolo gesto incongruente, anche se mandato a memoria e probabilmente ripetuto da molti giorni. È il primo indizio che il puzzle dell’ordinaria vita di Ruth Goldman presenta qualche pezzo che non si incastra più. È la memoria, e la sua perdita, per demenza e un Alzheimer che avanza, al centro di quest’opera prima di Sarah Friedland, pluripremiata a Venezia, nella sezione Orizzonti, capace di farsi notare per una sensibilità di racconto e per una straordinaria interpretazione di Kathleen Chalfant.
Il cinema si presta a scomporre e ricomporre il puzzle dei ricordi, a partire da quando Ruth viene accompagnata dal figlio, che non riconosce, nella clinica Bella Vista, anche se pensa sia una gita in hotel per un appuntamento. Lì sarà accompagnata nel suo percorso nella malattia, circondata da “persone noiose che non conosco neanche”, soprattutto colpevoli di festeggiare con torte “da supermercato”. Peccato capitale per una appassionata cuoca, che attraverso la cucina e gli ingredienti per organizzare qualche ricetta, si lega disperatamente alla vita, e al passato remoto di quando insieme alla nonna imparava a cucinare nella loro casa di famiglia di Brooklyn.
Come da manuale i ricordi lontani ad essere i più vividi, mentre il passato prossimo fugge via, fino a riecheggiare con qualche parola in yiddish la “vera” casa in cui vorrebbe tornare, mentre viene recuperata dal personale della clinica durante una fuga notturna. Una casa sospesa in Europa e nelle nebbie della storia della sua famiglia di ebrei ashkenaziti, di origine est europea, come le sue ricette preferite. Familiar Touch evita pietismi e pesantezze, si affida a una costruzione sensoriale lieve e colorata dell’allontanamento di Ruth dall’oggi, si affida all’ironia e al paradosso, mantenendo per una volta il punto di vista del malato, al massimo del personale sanitario, lasciando sullo sfondo i familiari, rappresentati esclusivamente (a parte una fugace apparizione della nipote) dal figlio, presente senza essere invasivo, delicato e commovente nell’amore che traspare dal suo sguardo.

Il corpo di Ruth è al centro della storia, lungi dall’essere un orpello da nascondere. È il centro ricettivo delle sue pulsioni sessuali, degli stimoli di piacere, rappresentati anche solo da un lungo bagno in piscina o da un abbraccio. Perché in Familiar Touch ci sono alcuni, non che siano troppi, degli abbracci più pieni, teneri e toccanti, seppur pieni di pudore e discrezione, che abbiamo visto recentemente al cinema. È un contatto liberatorio, una trasmissione sincera di affetto da parte di una Ruth che impara a ricostruire la sua vita quotidiana, e con essa le persone che meritano i suoi slanci e il suo tempo. Senza parole inutili, con un’attenzione scrupolosa ai gesti quotidiani, ci conduce in un viaggio in cui i desideri della protagonista sono ancora forti, ma cambiano e si adattano alla sua nuova situazione, mentre la dolce Vanessa diventa la “mia cara amica”, e il figlio recupera dalla casa della madre alcuni oggetti capaci di riempire il vuoto della sua quotidianità.

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Familiar Touch è un film piccolo e delicato, che priva la materia trattata – l’incapacità di badare a se stessi per via dell’età e della malattia – delle parti più scabrose e degradanti. Ruth è una donna elegante, raffinata, appartenente all’alta borghesia americana, come denunciano la casa spaziosa e piena di oggetti, gli abiti eleganti e i gioielli che sfoggia. Ma ciò non le impedisce di scambiare il figlio, di cui sembra non aver memoria, per un possibile corteggiatore in una delle sequenze più amare del film. La pellicola è drammaticamente precisa nel restituire la complessità di una malattia mentale che impedisce a Ruth di riconoscere il suo unico figlio, ma non di ricordare alla perfezione le ricette di cucina apprese dalla nonna con cui è cresciuta mentre i genitori erano al lavoro. Il film di Sarah Friedland si concentra in un momento preciso della storia di Ruth, quello in cui dove ambientarsi nella facility care che lei stessa aveva scelto, come spiega il figlio, in previsione del momento in cui non sarebbe più stata in grado di vivere da sola. Quella che è la parte più corposa del film nasce da un laboratorio tenuto dentro la struttura con il coinvolgimento di infermieri e pazienti, che compaiono nel film insieme agli attori. Questa situazione permette alla regista di dar vita a qualche momento più leggero e ironico, in cui vediamo Ruth intenta a provare a comunicare con le altre ospiti della casa di cura o a prendere il controllo della cucina, impartendo ordini al personale con estrema naturalezza.

Nel raccontare la malattia, Familiar Touch sceglie di adottare per la maggior parte del tempo il punto di vista della protagonista, che Kathleen Chalfant restituisce in tutta la sua fragilità, disperazione e al tempo stesso dignità. Il film è molto efficace nel mostrare l’andamento della malattia, in cui si alternano momenti di perfetta lucidità ad altri di totale confusione, e dove presente e passato si fondono in un unicum che cancella la coscienza di sé del paziente. La riflessione della regista non si limita al caso specifico della sua protagonista, ma assume una valenza universale nel rappresentare il crepuscolo della vita e l’invecchiamento, processo a cui tutti vanno incontro.
Per valorizzare la dimensione umanistica, la regista fa il vuoto intorno alla storia principale. La sua telecamera si concentra su Ruth seguendola da vicino nei suoi gesti quotidiani, esplorando il suo volto per catturarne tutte le emozioni possibili, oppure la mostra impegnata a creare faticose relazioni con le persone che le gravitano intorno a partire dal figlio, interpretato da H. Jon Benjamin, che compare in pochi, ma fondamentali momenti. Alla lunga, però, questo stesso vuoto, “funzionale agli scopi che la regista si è prefissata”, pesa sulla narrazione un po’ scarna. O forse, l’assenza di subplot da usare come diversivi costringe al pubblico a riflettere, a immedesimarsi nell’anziana, a proiettare sulla sua storia le paure e le angosce sul futuro che attende tutti noi. Familiar Touch è un film che non lascia scappatoie.

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