Nadir Taji

Premio Migliore Regia - Settimana Internazionale della Critica 2025


DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
… Ci sono due momenti chiave attorno al quale ruota sia la narrazione del cortometraggio che il suo senso più strettamente cinematografico. Il primo riguarda il vulnus della vicenda, l’incidente scatenante che darà vita all’inesorabile balcanizzazione dei rapporti tra i personaggi: Hassan e la cuginetta dodicenne sono nel salotto di casa, mentre fuori il resto dei parenti si sta attrezzando per la preparazione del pranzo. Entrambi sono impegnati al telefono, su due diversi divani, con gli spazi che sono dunque separati e uniti da un continuo campo controcampo, fino a quando Hassan non rivolge la parola alla cugina dicendole che ha un video di una cosa che non ha mai visto prima, e si alza per mostrarglielo. Quando esce di campo Taji decide di lasciare la videocamera sul divano vuoto, per poi staccare sulla ragazzina che è però ora impallata dal cugino, che si è abbassato i pantaloni e pretenderebbe di essere masturbato dalla piccola. Quella che può apparire una scelta semplice cela al suo interno una delle volontà chiare del giovane regista, vale a dire la necessità di imparare a mostrare ciò che nelle famiglie si vorrebbe celare sotto la coltre del silenzio o, come avviene poi all’interno della narrazione, di un subdolo ricatto legato ad antiche questioni di denaro non ancora risolte.
Ancora più dirompente si rivela però la seconda scelta registica, quella che di fatto chiude Festa in famiglia e che dunque – come sottolineerebbe Alfred Hitchcock – con più immediatezza resta impressa nella retina degli spettatori. In un cortometraggio di neanche venti minuti ben cinque sono dedicati a un’unica inquadratura, che passa da un piano ravvicinato (quello sul van in cui una parte della famiglia – quella di Hassan – ha deciso di andarsene profondamente offesa dalle “accuse” rivolte al ragazzo) a un totale, dimostrando non solo la maturità espressiva di Taji, ma anche la prosecuzione del discorso già intrapreso nella sequenza sopracitata: tutto deve essere in campo, non ci si può neanche più affidare allo stacco di montaggio, che prevede al suo interno la possibilità di una ce(n)sura, ma si deve operare di long take, di piano sequenza. La “verità”, per troppo tempo nascosta o sottintesa senza che nessuno avesse il coraggio di esprimerla, viene dichiarata attraverso la macchina da presa, il suo valore testimoniale prima ancora che di pura osservazione. In questa sorprendente e assai convincente scelta estetica Festa in famiglia sembra raccordarsi alle istanze espressive della scuola iraniana, quasi che Taji stesse inseguendo le traiettorie di un Jafar Panahi o di un Asghar Farhadi, per citare due registi che hanno costruito le rispettive carriere sulla rivendicazione di ciò che è visibile, e sulla frammentazione del sistema sociale costruito sulla famiglia. In attesa di scoprire cosa porterà con sé il futuro, Nadir Taji – esattamente come Paoli De Luca – sembra già una solida promessa.
«La regia consapevole e potente affronta una storia cruda e drammatica, raccontando con lucidità l’incapacità dei personaggi di confrontarsi con la fragilità di una famiglia segnata da un trauma che rompe gli equilibri. La narrazione si affida a una direzione attoriale precisa ed efficace, sorretta da una padronanza del linguaggio che rinuncia ai manierismi per costruire una drammaturgia solida, tesa e coerente dall’inizio alla fine»: con queste motivazioni è stato conferito a Nadir Taji per Festa in famiglia il Premio Migliore Regia alla 10ma edizione di SIC@SIC, lo spazio competitivo della Settimana Internazionale della Critica riservato ai corti. Nato nel 2000, Taji si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia proprio con questo lavoro (distribuito da Premiere Film), dove raccoglie i frutti della sua passione per la narrativa esistenzialista dei Camus e dei Sartre, narrando una storia di (stra)ordinaria incomunicabilità tra i componenti di una famiglia marocchina. La cui festa viene turbata dalla notizia che il giovane Hassan ha molestato la cugina di dodici anni.
«Il caso n sé», spiega il regista a Ciak, «è uno stratagemma per mettere in una situazione instabile dei personaggi che l’instabilità non la vogliono, la rifiutano, in nome anche di un equilibrio familiare e personale». Rappresentato plasticamente dal momento iniziale della festa, che, prosegue il filmmaker, «mi ha affascinato, con i suoi riti e le prassi da seguire, proprio come idea di normalità, sebbene possa sembrare il contrario: ma l’eccezionalità rispetuta diventa normalità». Di fronte alla messa in crisi di quest’ultima, l’intento di Taji non era tanto quello di giudicare i suoi personaggi e le loro azioni («Come dice un cantante che amo molto, Dargen D’Amico, parlare male del Male e bene del Bene è bravo chiunque a farlo»), bensì di riflettere su temi come «quello dell’educazione, soprattutto affettiva».
Un problema, quest’ultimo, che riguarda con ogni evidenza tanto i ragazzi quanto gli adulti: «Il protagonista è figlio di un certo sistema educativo, e mi sono chiesto per quale motivo i genitori comunichino e reagiscano in una certa maniera. All’inizio il mio intento era condannarli, ma poi mi sono detto che non aveva senso, che non spettava a me farlo, altrimenti sarebbe diventato un corto di satira o di denuncia sociale». Più interessante, per Taji, capire cosa porta i genitori e i figli della sua storia ad agire in una certa maniera: «Mi auguro che quando un personaggio fa una cosa che lo spettatore non condivide, lo spettatore capisca almeno perché l’ha fatta».