Fuori

Mario Martone

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Alcuni mesi in carcere, per un furto figlio di ripicca e la frustrazione di anni di salotti letterari ipocriti. Goliarda Sapienza raccontata in pochi mesi del 1980, quando si aggirava con le bozze di quello che sarebbe diventato, solo postumo, un classico della letteratura contemporanea, L'arte della gioia. Un dentro, a Rebibbia, e un fuori condizionato da quell'esperienza e dall'amicizia con due ragazze in particolare. Malinconico e ribelle, liberatorio sguardo su un mondo in trasformazione, fra il maschilismo della cultura al comando e le tendenze terroristiche fra i giovani. Un'estate romana, fra amiche diverse in tutto tranne che nella voglia di identificare un futuro.
DATI TECNICI
Regia
Mario Martone
Interpreti
Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Sylvia De Fanti, Stefano Dionisi, Francesco Gheghi, Antonio Gerardi, Corrado Fortuna
Durata
115 min
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Mario Martone, Ippolita di Majo
Fotografia
Paolo Carnera
Montaggio
Jacopo Quadri
Distribuzione
01 Distribution
Nazionalità
Italia, Francia
Anno
2025

Presentazione e critica

Il momento forse più rivelatore di Fuori arriva nei post-credits, quando Martone inserisce il frammento di una vecchia puntata della trasmissione Film Story condotta da Enzo Biagi. Si tratta di un’intervista del 1983 a Goliarda Sapienza (facilmente reperibile su YouTube) in cui la scrittrice, circondata esclusivamente da uomini, parla della propria esperienza del carcere, cercando di spiegare come per lei sia stato un luogo emblematico, una sorta di locus dell’anima, dove ha sperimentato una forma di libertà unica, introvabile altrove: «io non dico carcere è bello. Però carcere è come il fuori» dice cercando di restituire complessità e profondità a un’esperienza solitamente ridotta al solo aspetto punitivo. Tuttavia, le sue parole vengono accolte con ironia e un certo paternalismo da Biagi e dagli altri, incapaci o non disposti a cogliere il senso più alto del suo discorso.

Ecco, per comprendere con più profondità Fuori bisogna pensarlo come il controcampo ideale di questa immagine finale. Il film non è infatti una biografia di Goliarda Sapienza, né una riflessione sulla sua poetica, sulla sua eredità o sull’oblio che l’ha ammantata per anni. O almeno non solo. È soprattutto una sottile – e a tratti onirica – identificazione di una donna fuori dall’ordinario. Una donna cresciuta lontano dal sistema scolastico statale, come ricorda la didascalia in esergo, perché durante il Ventennio i genitori scelsero per lei un’educazione impartita da anarchici e antifascisti. Un imprinting educativo che ha aperto a una vita lontana dai confini del conformismo e degli schemi borghesi, puntando a una forma di libertà autarchica. Una libertà della quale il film cerca di mettere in scena la forma.

Ovvero ricercare fuori le emozioni e lo spirito di amicizia incontrati dentro. Qualcosa di difficile da spiegare, come mostra molto bene la clip finale con Biagi, soprattutto a un mondo che ha plasmato i luoghi di assistenza e contenzione – «il proprio paese si conosce conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio» dice ancora la scrittrice – secondo una logica di controllo, vigilanza e punizione. Ma è quello che Sapienza ha tematizzato nei due libri che hanno ispirato il film, L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, e che Martone – insieme con la moglie Ippolita Di Majo, co-sceneggiatrice – mette in scena costruendo intorno alla propria protagonista un mondo sospeso, a metà fra il sogno e la ricerca interiore. Da un lato, gli esterni: una Roma assolata, svuotata, quasi sospesa, in cui Goliarda si perde e si ritrova, respira, si sdraia su un prato o su un tronco, lasciandosi attraversare dal tempo e dalla luce. Dall’altro, gli interni: luoghi chiusi come bar, stazioni, metropolitane, e soprattutto la gioielleria di Barbara, che si trasforma in un controcampo simbolico della prigione – o forse in una prigione “ideale” – senza finestre, buia ma con la doccia e il tavolo dove mangiare. Tutte insieme. E il film si esprime soprattutto qui, in questa rappresentazione di spazi interiori che sfumano nella realtà, anche dura, che sta intorno. E che dà corpo all’esistenza fragile e indocile di Goliarda, capace ancora di desiderare, sbagliare e ricominciare da zero.

Ma in controluce c’è anche qualcos’altro che sembra rifiorire e prendere forma da una nuova prospettiva: il film fotografa infatti un momento chiave della storia italiana. Quegli anni Ottanta in cui, lentamente, l’Italia usciva dagli anni di piombo per entrare nell’epoca del craxismo e del riflusso. Un passaggio in cui le forti passioni, le ideologie e i contrasti aspri iniziavano a sfumare, a indebolirsi nello spirito del tempo. Un periodo in cui il Paese avrebbe avuto bisogno di nuove storie, di altre prospettive – forse non ancora in grado di comprendere, come dimostra sempre la clip finale con Enzo Biagi – ma che era inevitabilmente destinato a incontrare.
L’arte della gioia, il romanzo della vita di Goliarda Sapienza, sarebbe uscito in Italia solo dopo la morte della scrittrice (prima come pubblicaizone indipendente nei secondi anni Novanta e poi, ufficialmente, con Einaudi addirittura nel 2008, a dodici anni dalla scomparsa). Il momento in cui abbiamo davvero cominciato a essere pronti ad ascoltarla.

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