Here

Robert Zemeckis

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Here è ambientato per tutta la sua durata in un'unica stanza e racconta la vita delle persone e delle famiglie che la abitano nell'arco di 100 anni. Una storia che viaggia attraverso le generazioni, catturando l'esperienza umana nella sua forma più pura.
DATI TECNICI
Regia
Robert Zemeckis
Interpreti
Tom Hanks, Robin Wright, Kelly Reilly, Michelle Dockery, Paul Bettany, Ophelia Lovibond, Jonathan Aris, Nikki Amuka-Bird, David Fynn, Lilly Aspell, Mitchell Mullen
Durata
104 min
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Eric Roth, Robert Zemeckis
Fotografia
Don Burgess
Musiche
Alan Silvestri
Distribuzione
Eagle Pictures
Nazionalità
USA
Anno
2024
Classificazione
Tutti

Presentazione e critica

Un terreno preistorico, e la casa che sorgerà su quel terreno. Quella casa ospiterà generazioni di famiglie, dall’homo sapiens agli indigeni ai coloni, fino ad un nucleo domestico afroamericano contemporaneo. E nel salotto di quella casa scorreranno vite sempre diverse e sempre uguali, popolate da mariti, mogli, figli, nonni, nipoti. Lo sguardo empatico di Robert Zemeckis li osserva, incastonandoli in rettangoli che scompongono e riproducono la dimensione geometrica del grande schermo, racchiudendo tutti in uno spazio che è a tratti rifugio e a tratti trappola, scrigno fatato e camera mortuaria, luogo di creazione – di arte, di progenie, di speranze – o di quieta implosione e rimpianto, in un film che è una scatola magica, un pop up book e una matrioska dell’esistenza umana.

Con Here Zemeckis stabilisce un’unità fissa di luogo (con pochissime escursioni all’esterno, compresa la più commovente, quella finale) costringendo il nostro sguardo in un ambiente solo, che però si fa frattale del mondo. L'”Here” and now, il qui e ora, diventa il qui e sempre, perché all’unità di luogo non corrisponde un’unità di tempo, anzi: il tempo viene frammentato, shakerato, disallineato e reso eterno nella sua ripetitività, riportando il percorso di innumerevoli famiglie che vivono in quell’unico luogo gioie e tragedie, nascite e lutti, e quel numero limitato di Giorni del Ringraziamento e Natali che scandisce il tempo, per tutti noi, all’interno del cerchio della (nostra) vita. “Il tempo vola”, ripeterà un personaggio, e in un attimo quello che sembrava infinito diventa momentaneo, un Polar Express già passato di cui ci si scopre passeggeri invece che conducenti. E forse ci diremo: “Avrei voluto fare di più, con questi anni”.

La sensazione, per lo spettatore come per i personaggi in scena, è insieme claustrofobica e familiare. Zemeckis crea la parabola struggente della vita, affrontando anche l’inevitabilità della morte che arriva improvvisa, mai come ce la saremmo aspettata. Dentro questa parabola c’è anche la summa del percorso cinematografico del regista, che si autocita infinite volte: attraverso le scatole di un trasloco marcate Allied, attraverso un Beniamino Franklin che cerca il fulmine come il Doc di Ritorno al futuro, o un pilota che rischia la vita come quello di Flight, e naturalmente attraverso la coppia centrale del film, interpretata da Tom Hanks e Robin Wright che erano il cuore tenero di Forrest Gump. L’unica famiglia che affronta la vita con inesauribile allegria è quella bohemienne che si dedica all’arte e inventa una poltrona “magica” che tiene i piedi sollevati da terra: e i piedi sono sempre simboli, nel cinema di Zemeckis. Il regista muove le sue figurine come in un diorama esistenziale alla Benvenuti a Marwen per esorcizzare la paura di vivere, e soprattutto quella di morire: emblematica la scena in cui, in quella stanza che abbiamo osservato per tutto il film, non ci accorgiamo che c’è un corpo inanimato steso a terra, dentro quel rettangolo che chiamiamo vita.

Here è l’opera malinconica e dolcissima di un regista settantenne che è sempre stato affamato di vita, e che l’ha raccontata come un’avventura surreale (Ritorno al futuro), un mistero insondabile (Contact), anche una farsa legata alle nostre illusioni (La morte ti fa bella). I suoi protagonisti possono diventare cartoni animati senza colpa perché “disegnati così” (Chi ha incastrato Roger Rabbit?), fantasmi (A Christmas Carol), marionette di legno desiderose di diventare esseri umani (Pinocchio). Alcuni si perdono (Cast Away) per ritrovarsi più consapevoli, altri diventano consapevoli scoprendo Le verità nascoste. E tutti camminano su un filo teso sopra al nulla (The Walk), in equilibro tra la vita e la morte, talvolta gettandosi nel vuoto nella speranza di trovare un appoggio sicuro (Allied – Un’ombra nascosta) perché la vita è incerta, ma ricca di possibilità.

 

 

Mymovies

Here di Robert Zemeckis porta sul grande schermo una celebre pietra miliare delle graphic novel, l’opera omonima firmata da Richard McGuire. Il regista ne conserva le peculiarità adattandole al linguaggio cinematografico. Assistiamo a un film girato da uno solo point of view, una sola prospettiva fissa, non soggettiva, collocata per gran parte del film all’interno di un soggiorno (fatta cioè eccezione per i frammenti che visualizzano epoche passate, in cui non era ancora stato costruito l’edificio all’interno del quale la stanza si trova). Le vicende che Here racconta – o, meglio, su cui apre squarci – abbracciano più generazioni, spaziando su un arco temporale plurisecolare. All’interno della medesima inquadratura si aprono di volta in volta, in maniera del tutto libera, nuovi quadri che creano split screen di diverse dimensioni, collocati in punti diversi dello schermo. In tal modo Zemeckis ricalca fedelmente la fonte letteraria da cui il film trae spunto, con l’aggiunta però fondamentale, cinematografica, delle transizioni. Queste ultime, a seconda dei casi, ampliano ciò che era parziale, anticipano la scena successiva, oppure trattengono quella precedente, arricchendo l’esperienza visiva e narrativa. Trasformandola in Cinema.

Here è un film in un certo senso sperimentale, che a partire dalla forma finisce per essere significativo su più livelli di lettura. In primo luogo, dal punto di vista squisitamente stilistico, presenta novità sotto il profilo del linguaggio cinematografico, convertendo in cinema – grande cinema – il potenziale cinematografico latente nel materiale d’origine. In secondo luogo, apre una riflessione sul Tempo: su quello del racconto, certamente, ma anche sul Tempo in quanto tale – il tempo della vita. Pur coprendo più generazioni, Here si concentra soprattutto sulle vicende di un personaggio, Richard, interpretato da Tom Hanks (il quale, comparendo in diverse età della vita e dunque anche da giovane, appare spesso ringiovanito con la tecnica del de-aging). Il film ne racconta l’intera vita, contestualizzandola nel flusso temporale di ciò che la precede e che la segue. In questo modo, Here invita a riflettere sull’esistenza individuale in forme che azzardiamo a definire una sorta di “minimalismo massimalista”. Ed è qui, secondo noi, che si cela il livello di senso forse più originale del film.

Procediamo con ordine. Sotto il profilo stilistico, l’elemento distintivo del film è rappresentato proprio dalle transizioni innovative legate all’uso di finestre, riquadri che si aprono nello schermo, attraverso i quali il racconto procede per stacchi, avanti o indietro nel tempo. Si generano diversi e spesso inediti significati a seconda dell’effetto di transizione usato: espansione di una finestra in schermo intero o viceversa, utilizzo di finestre per unire personaggi colti in età diverse o per accostare eventi analoghi appartenenti a epoche diverse… Oppure ancora, al contrario, la finestra può essere usata per segnare discontinuità, suggerire interruzioni, presagire una fine, dividere personaggi che stanno per separarsi.

La riflessione sul Tempo risulta suggestiva e coinvolgente grazie alla particolarità del linguaggio visivo escogitato. Il tema della persistenza e della ricorrenza si sviluppa attraverso legami che attraversano i secoli, evocando assonanze e rimandi tra esistenze individuali lontane, parentele segrete in grado di suggerire il travalicamento della solitudine (quasi richiamando alla memoria, per certi versi, La doppia vita di Veronica di Kieslowski). Ma ciò è vero più agli occhi dello spettatore che non per i personaggi, per i quali invece il tema dello smarrimento della memoria è preceduto dal suggerimento costante allo spettatore dell’inconsapevolezza del senso più profondo del nostro esistere in cui si svolge nel quotidiano la vita di ciascuno. O più semplicemente, dell’inconsapevolezza di quanto siano simili, le nostre vite, rispetto a quelle dei nostri simili: siano essi i nostri affetti, siano gli estranei che ci hanno preceduto o ci seguiranno nel tempo. Ognuno, nel film, viene colto in un frammento di presente, in cui è – come tutti noi – privo di coscienza di vivere in un luogo, certamente ordinario, eppure carico di eventi e di memorie, che risuonano dal passato, e forse persino dal futuro.

Il film si conclude con l’unico cambio di prospettiva dell’intera opera, una liberazione dello sguardo che coincide con un’apertura e un’inversione di campo che richiama formalmente il finale di Professione: Reporter” di Antonioni. La macchina da presa esce finalmente dal soggiorno, si eleva in un dolly vertiginoso, finendo per inquadrare l’intero edificio e il quartiere circostante. Questo movimento sigla la definitiva mise en abîme dell’individuale nel collettivo, e suggella il rispecchiamento della vicenda dei personaggi di “Here” in una dimensione più ampia. Poc’anzi abbiamo introdotto la formula ossimorica di “minimalismo massimalista”. Vogliamo dire che il film è costituito all’apparenza da una prevalenza di “scene madri”, ma queste scene in realtà svelano un’essenza minimalista. Here mette in scena, alla fin fine, gli eventi più ordinari della vita. Si concentra sì sui più classici momenti da album di ricordi: nascite, morti, compleanni… Ma questi momenti sono messi in scena in modo molto poco spettacolare. Non si afferma che questi momenti siano le cose più significative della vita; al contrario, il film suggerisce che i momenti più significativi vissuti da ciascuno si collocano non “Qui”, ma “altrove”. Fuori campo. E fuori dal tempo del racconto. In un film che si concentra sul “qui”, finiscono per risultare fondamentali le ellissi. Un bel paradosso.

 

Ondacinema