Hey Joe

Claudio Giovannesi

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Napoli, 1944. Dean Berry, giovane marinaio americano, si innamora di Lucia, una ragazza dei Quartieri Spagnoli. Quando riparte per gli Stati Uniti lei è incinta: lui promette di tornare, ma non lo farà. New Jersey, 1971. Dean è un veterano di tre guerre - alla Seconda Mondiale sono seguite la Corea e il Vietnam - mezzo alcolizzato, con una ex moglie che esige anni di alimenti mai pagati e l'abitudine di trascinarsi stancamente per sale bingo. Un telegramma spedito dall'Italia 13 anni prima lo raggiunge a sorpresa e gli ricorda di avere un figlio, Enzo, che gli aveva scritto a 12 anni quando Lucia era morta, chiedendo di incontrare suo padre. Dean parte per Napoli alla ricerca di quel figlio, che ora ha 25 anni e vive di espedienti, e che è stato cresciuto dall'autoritario boss della camorra Don Vittorio.
DATI TECNICI
Regia
Claudio Giovannesi
Interpreti
James Franco, Francesco Di Napoli, Giulia Ercolini, Aniello Arena, Gabriel Riley Hill Antunes, Giada Salvi, Francesca Montuori, Donovan W. White
Durata
117 min.
Sceneggiatura
Claudio Giovannesi, Massimo Gaudioso, Maurizio Braucci
Fotografia
Daniele Ciprì
Montaggio
Giuseppe Trepiccione
Musiche
Andrea Moscianese, Claudio Giovannesi
Distribuzione
Vision Distribution
Nazionalità
Italia
Anno
2024

Presentazione e critica

Napoli, 1944. Dean Berry, giovane marinaio americano, si innamora di Lucia, una ragazza dei Quartieri Spagnoli. Quando riparte per gli Stati Uniti lei è incinta: lui promette di tornare, ma non lo farà. New Jersey, 1971. Dean è un veterano di tre guerre – alla Seconda Mondiale sono seguite la Corea e il Vietnam – mezzo alcolizzato, con una ex moglie che esige anni di alimenti mai pagati e l’abitudine di trascinarsi stancamente per sale bingo. Un telegramma spedito dall’Italia 13 anni prima lo raggiunge a sorpresa e gli ricorda di avere un figlio, Enzo, che gli aveva scritto a 12 anni quando Lucia era morta, chiedendo di incontrare suo padre. Dean parte per Napoli alla ricerca di quel figlio, che ora ha 25 anni e vive di espedienti, e che è stato cresciuto dall’autoritario boss della camorra Don Vittorio. Hey Joe è un racconto intriso di nostalgia e tenerezza, una sorta di viaggio nel passato alla ricerca delle occasioni perdute con il passo incespicante e malinconico di una ballata di Tom Waits. Dean è un uomo solo in cerca di redenzione e trova in Enzo, ma anche nella prostituta Angela soprannominata Bambi che lo ha aiutato a cercarlo, i possibili veicoli per trovarla. Da buon americano, Dean è affetto dalla sindrome del Salvatore nei confronti di questi napoletani poveri che campano di espedienti, ma nei suoi modi non c’è arroganza o condiscendenza, solo una grande e istintiva empatia verso gli ultimi, di cui si sente intimamente di far parte. La forza di un film semplice e dalla conclusione sospesa sta in vari elementi: la regia di Claudio Giovannesi, che è come sempre fluida e aderisce con gentilezza ai suoi personaggi (la festa di battesimo è un piccolo saggio di abilità registica, senza farlo pesare allo spettatore); la fotografia sensuale di Daniele Ciprì; la sceneggiatura, dello stesso Giovannesi insieme a due rocce solide come Maurizio Braucci e Massimo Gaudioso; il commento musicale, di nuovo dello stesso Giovannesi insieme ad Andrea Moscianese; le scenografie di Daniele Frabetti e i costumi di Olivia Bellini, che ricreano una Napoli di due epoche diverse in modo magistrale (il nightclub in cui Dean incontra Angela negli anni Settanta è particolarmente suggestivo). Due soli appunti: il riferimento alla ex moglie cui Dean non paga gli alimenti da una vita fa a pugni con la generosità che l’uomo dimostrerà verso chiunque a Napoli, e un golden retriever nei bassi di Napoli appare piuttosto improbabile.

L’altra grande freccia all’arco di Hey Joe è la sinfonia di ottimi comprimari, ben diretti dal direttore d’orchestra Giovannesi: Giulia Ercolini nei panni di Angela, Francesco Di Napoli (già protagonista di La paranza dei bambini) in quelli di Enzo e Aniello Arena (anche lui reduce dello stesso film) nel ruolo di Don Vittorio. Su tutti svetta un inedito James Franco, maturo e leggermente imbolsito, che incarna Dean Berry con profonda umanità e dolcezza: un essere fragile e smarrito che ha conservato la capacità di immedesimarsi nelle altrui sventure, anteponendole alle proprie. Franco non sbaglia un’espressione o un movimento, creando un’interpretazione memorabile senza nessuna delle esagerazioni narcisistiche “da Oscar”. Hey Joe si lascia seguire con facilità, rivelando una sorprendente delicatezza: una favola gentile sull’importanza di rimanere umani anche quando tutto rema contro, e di cercare di rimettere insieme i pezzi della propria vita, anche a costo di rischiarla.

 

 

Mymovies

L’opera precedente da regista e co-sceneggiatore di Claudio Giovannesi La paranza dei bambini (…) è un titolo da rivedere e riscoprire alla luce di questo nuovo Hey Joe, ancora con Maurizio Braucci a coadiuvare la realizzazione dello script, ancora con Francesco Di Napoli tra i protagonisti. Il giovane interprete, napoletano di nome e di fatto, interpreta qui il venticinquenne Enzo, quasi una versione cresciuta e “normalizzata” del suo rivoluzionario personaggio tratto dal best-seller di Saviano. Il proscenio principale, però, è tutto per James Franco, che trova qui la grande occasione di conferma per una maturità d’interprete finalmente esercitata fuori dalla comfort zone dell’indipendentismo fuori-ma-dentro Hollywood, insieme ai sodali Seth Rogen, Evan Goldberg, Judd Apatow e compagnia. Indipendenza di approccio già dimostrata, a dire il vero, dalla sua debordante carriera registica, sempre alla ricerca di progetti ambiziosi, capace di adattare con lo stesso impegno giganti della letteratura come McCarthy o Faulkner e campioni della serie Z come Tommy Wiseau (The Disaster Artist, che gli regalò un Golden Globe come miglior attore e la nomination per la miglior sceneggiatura ai successivi Oscar). Nel film di Giovannesi è Dean Barry, da giovane al seguito dell’esercito americano in Italia durante la seconda guerra mondiale, combattente anche in Corea e Vietnam; all’inizio degli anni Settanta, dove si svolge il film per la gran parte, lo si vede stanco e depresso in una cittadina del New Jersey, un matrimonio naufragato e poche prospettive per il futuro. A destarlo dal torpore è un telegramma giuntogli con ben tredici anni di ritardo, per un disguido postale che in tralice rende evidente la trascuratezza del governo verso i suoi ex combattenti: gli si comunica la morte di Lucia, suo amore giovanile nella Napoli occupata dalle truppe statunitensi nelle battute finali del conflitto, e la volontà del figlio Enzo di conoscerlo, figlio da lui “seminato” nel ventre della giovane popolana partenopea prima di riattraversare l’oceano e, in barba alle promesse, non fare più ritorno. Sembra davvero il momento buono per ricollegare i fili con il passato, ma Dean non ha idea di quello che si troverà di fronte una volta giunto a destinazione… Giovannesi, con piglio registico di stampo “garroniano” ma anche con elementi di originalità precipua, pedina con la macchina da presa il suo protagonista per i vicoli del centro storico di una Napoli insieme autentica e attenta a rispettare ogni canone rappresentativo e sociologico, ponendosi in antitesi (involontaria) con l’ultima opera di Paolo Sorrentino, Parthenope. Se per quest’ultimo la bellezza del capoluogo campano è da ricercarsi negli scorci dal mare di palazzo Donn’Anna, Giovannesi compone una geografia di vicoli e “bassi” che Sorrentino confina soltanto a una sequenza, al giro della giovane ninfa con il camorrista interpretato da Marlon Joubert, che in È stata la mano di Dio era il fratello di Fabietto/Paolo, una delle tante suggestioni di una coppia di film che non è questa la giusta sede per analizzare. Ma non si può non sottolineare, invece, la massiccia presenza di Napoli nel cinema italiano più autoriale e “importante” del momento, nell’attesa che si aggiunga la spericolata operazione di Salvatores che riprende in mano un trattamento della coppia Fellini/Flaiano (Napoli/New York). Una città/mondo che avviluppa presto anche l’americano Dean, già dopo qualche giorno di permanenza impegnato a fare qualche soldo con il traffico di prodotti che gli permette il suo libero accesso alla base NATO di Bagnoli e i suoi negozi (un po’ alla stregua di quello che avviene tuttora nel/intorno alla Città del Vaticano) con i prezzi stornati di Iva e imposte doganali. Fregato all’arrivo da una prostituta, la Bambi della bravissima Giulia Ercolini, l’ex marine fa quello che ha sempre fatto nella sua esistenza per poter sopravvivere: si adatta al territorio “di battaglia”, ne scruta da presso odori e umori, capisce alla svelta i giochi e le gerarchie di potere. Potere rappresentato dal don Vittorio di Aniello Arena (ecco un’altra faccia usata da Garrone, in Reality, tra l’altro sempre ambientato a Napoli), che ha fatto da padre supplente al giovane Enzo, usandolo in realtà come manodopera a basso costo per i suoi intrallazzi. Una volta date le carte del gioco, Giovannesi si diverte a mischiarle più volte, transitando persino, nel pre-finale, dalle parti del neo gangster movie anni Novanta di Mann e De Palma, in questo aiutato dalla sapiente fotografia di Daniele Ciprì, che usa la grana del 35mm per separare luoghi ed epoche. Un film, dunque, avvincente e straniante, che maschera da eroe il suo personaggio principale per le due ore scarse di durata per poi lasciare tutti i suoi difetti nella mente dello spettatore, che si ritroverà a enumerarli uno ad uno a visione terminata. Un personaggio principale che non crede più nel codice morale e comportamentale impartitogli per la vita intera dalla famiglia/esercito, e che proprio per questo cerca di recuperare una ulteriore famiglia ormai perduta; nel volto e negli occhi dolenti di James Franco si legge tutto il conflitto morale inespresso, tutta la ferinità addormentata che non aspetta altro che di risvegliarsi. Se non gli EFA, che almeno i nostrani David consacrino con un premio il prossimo anno questa meravigliosa prova d’attore. E non dimentichino, magari, nemmeno Claudio Giovannesi, forse il migliore della generazione dei cineasti italiani 45/50enni lanciati sul finire degli anni Zero, e dal potenziale ancora non espresso appieno: Hey Joe è un primo gradino nella risalita al trono, mediatico e di considerazione, e siamo consci di usare un linguaggio “malavitoso” caro proprio a quella Gomorra televisiva inizialmente osteggiata, e che annoverava tra i registi di alcuni episodi proprio il Nostro. È proprio da lì, invece (e dal successo mondiale con la H finale), che la rinascita napoletana turistica e culturale è (ri)partita per l’ennesima volta, proprio come sottolineavano ironicamente i fratelli Manetti nel delizioso Ammore e malavita qualche anno fa.

 

Quinlan