Viggo Mortensen

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Vivienne Le Coudy sta morendo ma la sua vita non è passata invano. Fedele a se stessa e pugnace come la Pulzella d’Orléans, di cui le raccontava la madre da bambina, è figlia orgogliosa di emigrati francesi in Canada, dove cresce indipendente. Traslocata in America, rifiuta fieramente un matrimonio borghese e vende gentilmente fiori ai passanti. Uno su tutti si presenta e la innamora con la sua dolcezza e la sua integrità morale. Holger Olsen, cowboy danese, ha combattuto dodici anni nel suo Paese e adesso sente l’obbligo di impegnarsi a servirne un altro. Volontario nordista, pianta il seme di una casa con Vivienne e poi parte per la sua battaglia. Indietro resta una donna e i predatori che popolano terre ancora selvagge. Abusata dal figlio fuori controllo del boss locale, protetto da un sindaco corrotto, resta in attesa di un figlio e del suo grande amore, che tornerà per vivere con lei l’ultimo bagliore di felicità.
La prima inquadratura di The Dead Don’t Hurt – I morti non soffrono destabilizza. Un cavaliere medievale avanza nella foresta al ritmo di un respiro, pesante come un rantolo. Ma è un attimo, il sogno di una donna che sta morendo. Poi il film diventa quello che promette, un western classico. Come Clint Eastwood in Gli spietati, il cowboy di Viggo Mortensen ha perso la moglie e le sta scavando la fossa sotto lo sguardo del figlio. Si tratta per l’attore, alla sua seconda regia, di inscrivere il suo film nella tradizione, a cui aggiunge un approccio contemporaneo.
Il punto di vista sulla conquista del West è femminile, una donna québécoise si stabilisce in Nevada nel 1860 e combatte la sua guerra mentre il suo uomo è al fronte a combattere quella assurda degli uomini. Dopo aver giocato il maschio alfa e tossico nei film di Cronenberg (A History of violence, La promessa dell’assassino), Viggo Mortensen si impegna in un processo di riflessione e di decostruzione del suo doppio fallocratico. Almeno nei film che sceglie di dirigere. Dopo aver interpretato un figlio gay e straordinariamente indulgente col padre tirannico sull’orlo della demenza senile (Falling – Storia di un padre), sceglie un’eroina alle prese con la vigliaccheria maschile in tutte le sue espressioni, che si tratti del marito assente o dei predatori che si aggirano come avvoltoi intorno alla vergine vestale.
La resilienza di Vivienne è in definitiva l’unico soggetto di questo western dichiaratamente femminista e volontariamente anacronistico, che ficca le considerazioni sociali più contemporanee nel genere più tradizionale del cinema americano. Interpretata con vigore e grazia da Vicky Krieps, ancora una volta nel ‘costume’ di una donna anticonformista, la protagonista fa quello che le donne sanno fare meglio quando gli uomini vanno in guerra: lavorare duro, stringere i denti, restare degna e morire come una santa, lasciando la vendetta al vedovo di turno e di ritorno dal fronte.
Krieps, Penelope ai tempi dei pionieri, è una silhouette irradiante al centro di un film desueto, che vorrebbe riattivare una certa idea di grande cinema hollywoodiano, all’incrocio tra impegno e romanticismo, tra il neoclassicismo di Eastwood (Gli spietati) e il mountain man di Sydney Pollack (Corvo rosso non avrai il mio scalpo!). Viggo Mortensen fa meglio della prima volta scegliendo per sé il ruolo del prode cavaliere, un cowboy straight e lontano dalle variazioni western-sperimentali del compare Lisandro Alonso (Jauja, Eureka). Carpentiere erudito, si innamora di una donna emancipata e scommette sullo scoppio di risa di Vicky Krieps, una risata dirompente come una cascata, in cui trova la ragione d’essere del suo western. Anche per lei è deciso a combattere i farabutti che governano il fottuto West degli Stati Uniti. Uomo orchestra – Mortensen è attore, sceneggiatore, regista e compositore -, l’attore rivisita i codici del genere, li declina al femminile e li arricchisce di suggestioni originali (i riferimenti ai cavalieri del romanzo arturiano, la cultura francese dell’eroina…), muovendosi tra passato e presente e interessandosi al destino di una donna che coltiva giardini, mette fiori nelle pistole e recide le ingiunzioni patriarcali, cattivi archetipali interpretati da apprezzabili veterani (Garret Dillahunt o Danny Huston).
“Come back from San Francisco | And kiss me, I’ve quit smoking | I miss doing the wild thing with you | Will you stay? I don’t think so | But all I do is worry | Pack bags, call cabs, and hurry home to me”. Così cantavano venticinque anni fa i Magnetic Fields di Stephin Merritt, e la canzone in qualche modo si riaggancia emotivamente a quel che prende corpo in scena durante la visione di The Dead don’t Hurt, il film con cui torna alla regia Viggo Mortensen a tre anni di distanza dall’esordio Falling. Si incontrano dopotutto al mercato del pesce di San Francisco Vivienne – una radiosa e combattiva Vicky Krieps, attrice sempre più preziosa nello scenario internazionale contemporaneo – e Holger, canadese di zona quebecchese lei, immigrato dalla Danimarca lui, e dunque entrambi stranieri in quel selvaggio west in cui forse tutti gli esseri umani sono stranieri gli uni per gli altri. Si incontrano lì e dopo pochi convenevoli sono già sulla strada per la casupola di lui, persa nel mezzo del niente in uno scenario paesaggistico neanche così confortevole alla vista. Ma è davvero una storia d’amore questo The Dead don’t Hurt che fin dal titolo evoca la morte, l’ineluttabile destinazione di ogni esistenza? Mortensen, che provvede anche a scriversi da solo la sceneggiatura, fa principiare la storia da una morte e la fa approdare alla “fine del mondo”, senza per questo mai muoversi in direzione dell’epica e schivando qualsiasi tono apocalittico, ma solo registrando la mestizia del vivere, dell’amare e del soffrire, dell’essere sopraffatti e di ritrovare un’oncia di libertà, nonostante tutto.
Per quanto muoia già nella primissima sequenza – ma il regista, interprete e sceneggiatore è bravo a costruire una narrazione atemporale, in cui i piani del tempo si articolano in una consecutio che, un po’ come le regole del genere, è sempre protesa verso il rinnovamento – il personaggio centrale di The Dead don’t Hurt è com’è ovvio la Vivienne di Krieps, che già da bambina voleva combattere il mondo, come “papà e Giovanna d’Arco”, e che affronta questa wilderness quasi sempre declinata al maschile (ma sarebbe da ripensare anche a Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt e addirittura a Donne verso l’ignoto di William A. Wellman) con spirito indomito, a testa alta. Questo ovviamente non significa che le brutalità di quel mondo non la tocchino, e anzi la segnano in profondità, perché fisicamente il suo resta un elemento più debole rispetto alla preponderanza della virilità, che può arrivare ad abusarne. Ma Mortensen si aggrappa al personaggio di Vivienne, evitando di leggerlo come “eroina” ma al contempo donandole una profondità emotiva, psicologica, e strutturale che la eleva dalla massa polverosa. Sarà lo spirito di lei a poter proteggere Holger e il figlio che ha avuto dalla donna – ma forse non è proprio figlio suo… –, costretti da soli ad affrontare un viaggio verso un avvenire dove ancora si possono incontrare serpi lungo la strada. I morti non feriscono, ma la loro memoria può tornare in soccorso, come cavalieri di un tempo lontano, dove ancora si poteva avere l’ardire di sognare il mondo, e non solo di viverlo/subirlo. Come Giovanna d’Arco.