Simone Massi

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
È ambizioso ma allo stesso tempo sussurrato e intimo questo Invelle, opera prima nel lungometraggio di uno dei nostri più stimati animatori a mano libera, Simone Massi, già David di Donatello nel 2012 per il corto Dell’ammazzare il maiale: come la maggior parte della produzione di Massi, la tecnica utilizzata in questo caso è ancora un libero ricalco di riprese dal vero, anzi una loro reintepretazione costante, tramite un grezzo tratto in bianco e nero con improvvisi sprazzi di colore, in una selezione di elementi narrativi che si liberano di quello che in un’inquadratura reale distoglierebbe sguardo e senso. E la parola “selezione” ritorna osservando lo stile di Massi a 360°, concentrandosi sul sound design, che annulla quasi del tutto un commento musicale, concentrandosi su suoni d’ambiente rarefatti o sprazzi di dialoghi il cui suono ha la stessa importanza del contenuto. Come Invelle rappresenta bene, compiendo il passo successivo verso il più grande respiro del lungometraggio, quella di Massi è un’animazione che rilegge la realtà senza tagliare mai i ponti con la sua potente eco.
La trasfigurazione della linea permette piani sequenza che collegano tra loro immagini, persone ed elementi che non avrebbero legami di continuità: accanto a questa visionarietà quasi ipnotica, come si diceva efficacemente servita dal sonoro, c’è però in Invelle un’emotività narrativa nostalgica curiosamente dura, l’importanza del ricordo accanto alla presa d’atto più amara. Il materiale autobiografico del marchigiano Massi punta a fotografare e preservare un mondo di persone qualsiasi, di non eroi che la storia spazza inesorabilmente via, così come il loro universo. Nell’essenzialità dei problemi che la famiglia di Zelinda affronta in più di mezzo secolo, c’è la certezza di un’esistenza ai margini di decisioni prese da un altro pianeta, dal quale si dipende e al quale alla fine ci si sacrificherà. Se si ha un minimo di dimestichezza con l’importanza del lavoro nelle campagne nella storia italiana, è dolorosissimo questo senso di ineluttabilità al quale Massi si abbandona, usando il suo Invelle come testimonianza di un cambiamento epocale. Il titolo “Invelle“, in dialetto marchigiano “da nessuna parte“, parrebbe suggerire un’ironia amara che invece non traspare dalle immagini, serie e piene di suggestione, rispetto e anche una certa reverenza metafisica.
A metà strada tra la nostalgia e un viaggio onirico, quasi un incubo, Invelle richiede per la sua ora e venti l’accettare uno stile che probabilmente per ritmo pesa meno sulla misura del cortometraggio. Impossibile però non ammettere che, a visione terminata, un segno nella memoria non sia rimasto.
Cominciamo dal titolo, che ha un suono dolce ma allo stesso tempo sfuggente, proprio come il suo significato. Invelle, spiega Simone Massi, «equivale al “nowhere” inglese». È una parola dialettale che viene da lontano, che risale al volgare “velle”, ossia “volontà” («ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa» – Dante, Paradiso, Canto XXXIII). «L’espressione iniziale», prosegue il regista, «era “indovelle”, quindi “ovunque tu voglia”; poi cambia in “invelle”, il senso si rovescia e diventa “in nessun posto”. È una parola simbolo della civiltà contadina, utilizzata fino a 30/40 anni fa; dopo, nel momento in cui i contadini lasciano la campagna per andare a lavorare in fabbrica, questa parola, come tutto il dialetto, muore per vergogna».
Molto di quello che il film mostra è già racchiuso in queste parole: Invelle è la storia vista dai margini, da uno di quei tanti nessun posti che legano indissolubilmente il Nord e il Sud del nostro Paese. Un racconto ad altezza di bambino (Zelinda prima, Assunta poi e infine Icaro) che si sviluppa lungo l’arco di un sessantennio in cui le microstorie degli umili, degli ultimi, di chi abita da sempre e per sempre il lato faticoso della vita, s’intrecciano con la Storia d’Italia: si va dal 1918, dalla fine della Prima guerra mondiale, passando per la Resistenza (1943), fino al 1978 con l’assassinio di Aldo Moro.
Invelle è il primo lungo di Simone Massi dopo 30 anni di corti per merito dei quali ha ottenuto i più prestigiosi riconoscimenti internazionali (tra questi il David di Donatello per Dell’ammazzare il maiale). Invelle è il debutto d’un esordiente di successo ostinato a raccontare il mondo da cui proviene – che non l’abbia più, che l’ha visto morire, non significa che sia disposto a farsi adottare. Invelle è un capolavoro prezioso, un’immensa lezione formale e morale, che arriva nelle sale dopo innumerevoli ostacoli: 12 anni di gestazione; 40 versioni della sceneggiatura precedute dalla lettura di tonnellate di materiali; 40.000 tavole interamente realizzate a mano; un anno di limbo distributivo (il film è stato presentato nel 2023 alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia). Un affresco che trascende ogni possibile modello di riferimento, un’opera voluta fortissimamente da Massi che, nonostante i tormenti realizzativi patiti, è riuscito a conservare un’urgenza lancinante e, soprattutto, una necessità politica pari solo alla bellezza del suo film.
Massi è un artista che tiene la posizione, un animo resistente che porta avanti un’animazione antica, fuori dal tempo, fuori mercato: in bianco e nero screziata di rosso (il rosso della rabbia, della passione e del sacrificio), dura e spigolosa come un’incisione (fatta a pastelli a olio stesi su carta e poi graffiati con sgorbie e puntesecche ), ma sempre pulsante e in trasformazione (nel suo cinema non ci sono stacchi, anche Invelle è un ininterrotto pianosequenza che trasforma il racconto in un lunghissimo attimo, in un sospiro profondo nel quale sprofondiamo ed emergiamo per mezzo di continui zoom in avanti e all’indietro). Un’animazione che riesce, allo stesso tempo, a trasmettere, grazie a un incessante gioco di prestigio, solidità e leggerezza; che richiede fatica, a chi la realizza, ma anche anche a chi la guarda (gli stessi dialoghi, così come le identità delle sue figure – da lui qui utilizzate entrambe per la prima volta – non aiutano nella decifrazione della visione: i primi sfumano, s’interrompono; le seconde rimangono nascoste: non c’è mai un personaggio che chiama l’altro gratuitamente per dare l’informazione allo spettatore). Per tutto questo, ma anche per molto altro che ciascuno scoprirà vedendolo, Invelle è un miracolo di cinema. Un atto d’amore