Imran Perretta

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Non c’è alba dorata né tramonto romantico: il cielo di Ish è attraversato dal rombo costante degli aerei che sorvolano Luton. È un cielo basso, rumoroso, che pesa sui corpi di due ragazzi – Ish e Maran – dodicenni alle prese con la fatica di crescere in un luogo che sembra respingerli. Le loro giornate si consumano tra corse in bicicletta, partite alla Playstation, vagabondaggi nei boschi e nelle strade vuote della città. Piccoli gesti di libertà che, appena si esce dal perimetro domestico, si scontrano con controlli di polizia, diffidenze, ostilità.
Opera prima di Imran Perretta, artista visivo londinese di origini bengalesi e italiane, Ish è un romanzo di formazione che nasce dentro le contraddizioni del presente e le filtra con uno sguardo intimo, poetico, mai compiaciuto. La diaspora, tema cardine del suo lavoro installativo e performativo, diventa qui corpo narrativo: non solo condizione sociale, ma esperienza quotidiana che plasma gesti, silenzi, relazioni. La narrazione si muove su due livelli. Da una parte gli spazi domestici, quelli della casa di Ish, dove la nonna e il padre custodiscono, con tenerezza e cura, un equilibrio che scardina i cliché della “famiglia migrante problematica”: qui la memoria, il dolore e la cura si intrecciano in una tessitura di umanità che raramente trova spazio sullo schermo. Dall’altra parte, gli spazi esterni, in cui la tensione si fa palpabile: i controlli polizieschi, le occhiate diffidenti dei vicini, l’eco delle notizie da Gaza che alimentano rabbia e frustrazione tra i coetanei musulmani. È in questo contrasto, tra intimità e ostilità, che il film trova la sua voce più forte. La frattura arriva con una perquisizione violenta: un momento traumatico che segna un prima e un dopo, spaccando l’amicizia tra Ish e Maran e trasformando un legame vitale in una ferita. È lo spartiacque del racconto, la linea d’ombra che costringe entrambi a misurarsi con gli uomini che stanno diventando. Lì si coglie la natura universale di Ish: la consapevolezza che crescere non significa soltanto lasciarsi alle spalle l’infanzia, ma anche imparare a sopravvivere a ciò che la realtà impone con durezza.
Perretta sceglie il bianco e nero, ma lo fa con una sobrietà che rifugge la maniera: non c’è compiacimento formale, non c’è estetizzazione dell’indigenza, bensì un lirismo visivo asciutto, capace di tradurre i corpi in movimento e le geografie urbane in paesaggi emotivi. Ai dialoghi scarni si sostituisce la potenza del suono: i rumori di fondo, i silenzi improvvisi, le scelte musicali raffinate – non a caso il regista è anche compositore e DJ – costruiscono un tappeto sensoriale che amplifica la dimensione affettiva. Se qualche acerbità resta, è quella tipica di un’opera prima che porta con sé l’urgenza di affermarsi: la necessità di dichiarare un’identità autoriale fin dall’inizio. Ma è proprio questa tensione a rendere Ish un film vivo, partecipe, sincero. Perretta traduce la sua pratica artistica in linguaggio cinematografico senza perdere la delicatezza espressiva che lo contraddistingue, e nel rapporto fragile tra Ish e Maran ritrova la misura più autentica della sua scrittura visiva. In questa cartografia spezzata, Ish si afferma come un racconto di formazione poetico e lucidissimo, che restituisce al cinema ciò che gli appartiene: la capacità di fare del presente materia sensibile, di mostrare come si cresce quando crescere significa, innanzitutto, resistere.
Con Ish, presentato in anteprima mondiale alla Settimana della Critica di Venezia, Imran Perretta debutta nel lungometraggio con un’opera intensa e radicale. Un coming of age di rara forza visiva, ambientato in un’Inghilterra attraversata da tensioni etniche, paure globali e profonde fratture sociali. Il bianco e nero dominato da contrasti estremi – luce tagliente, ombre impenetrabili – non è una scelta estetica, ma un linguaggio espressivo che amplifica il senso di disorientamento e oppressione. La prima scena è già una dichiarazione d’intenti: una bicicletta rovesciata sull’asfalto, mentre fuori campo si sentono le voci concitate della polizia, gli ordini gridati, il rumore di un abuso. È un’immagine semplice, ma eloquente: l’infanzia capovolta, violata, interrotta. Un oggetto abbandonato che diventa simbolo di un trauma collettivo e personale, di un sistema che lascia cicatrici invisibili ma profonde.
Il protagonista è un adolescente di origini sud-asiatiche che si muove ai margini della società inglese contemporanea. Non ci sono svolte né redenzioni: il suo percorso è una lenta immersione in una realtà dove la violenza istituzionale e quella invisibile del quotidiano si intrecciano. Il film lo segue da vicino, spesso in silenzio, lasciando spazio ai dettagli – un’esitazione nello sguardo, un gesto trattenuto – che raccontano più delle parole. Mentre gli adulti risultano imprigionati in affari economici e rituali. Perretta costruisce un mondo visivo che restituisce la fragilità del presente. I volti sono scolpiti dalla luce, gli spazi urbani appaiono ostili, e il nero domina, denso e pieno. Ogni inquadratura riflette un disagio che non è solo individuale, ma profondamente politico. L’Occidente ritratto in Ish è smarrito, attraversato da paure diffuse, incapace di dare risposte a una generazione cresciuta nell’incertezza e nella marginalizzazione.
Il film lascia affiorare, in filigrana, il rumore del mondo: le notizie di guerra, in particolare quelle legate alle azioni israeliane in Palestina, irrompono nei dialoghi e negli ambienti con discrezione, ma non senza peso. È una tensione globale che si rifrange nelle vite dei personaggi, senza didascalie ma con chiarezza. Ish è un ragazzo, ma anche un simbolo: porta addosso le ferite di una società divisa, che ha perso il senso di sé. Con uno sguardo che unisce rigore formale e urgenza etica, Ish si impone come uno dei debutti più rilevanti del cinema europeo recente. Perretta riesce a raccontare la crescita come perdita, l’identità come conflitto, senza mai cadere nel compiacimento. Il suo film non offre appigli né conforto, ma colpisce per precisione e coerenza, lasciando il segno.
