La solitudine dei non amati

Lilja Ingolfsdottir

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Maria, già madre di due figli e divorziata dal primo marito, incontra a una festa Sigmund, con cui scatta l'amore. I due costruiscono una nuova famiglia ma il rapporto pian piano si deteriora tra incomprensioni, accuse reciproche e impeti di rabbia, lasciando Maria a chiedersi se ci sia qualcosa che non va in lei. Un'altra separazione sarà l'occasione per guardarsi dentro e ripensare sia il rapporto con Sigmund che quello con i figli.
DATI TECNICI
Regia
Lilja Ingolfsdottir
Interpreti
Helga Guren, Oddgeir Thune, Kyrre Haugen Sydness, Heidi Gjermundsen, Maja Tothammer-Hruza, Marte Magnusdotter Solem, Esrom Kidane, Aksel August Lenander-Lervik, Elisabeth Sand
Durata
100 min
Genere
Commedia
Sentimentale
Sceneggiatura
Lilja Ingolfsdottir
Fotografia
Øystein Mamen
Montaggio
Lilja Ingolfsdottir
Musiche
Bror Kristiansen
Distribuzione
Wanted
Nazionalità
Norvegia
Anno
2024

Presentazione e critica

Maria, già madre di due figli e divorziata dal primo marito, incontra a una festa Sigmund, con cui scatta l’amore. I due costruiscono una nuova famiglia ma il rapporto pian piano si deteriora tra incomprensioni, accuse reciproche e impeti di rabbia, lasciando Maria a chiedersi se ci sia qualcosa che non va in lei. Un’altra separazione sarà l’occasione per guardarsi dentro e ripensare sia il rapporto con Sigmund che quello con i figli.
Impietoso e incisivo, l’esordio alla regia della norvegese Lilja Ingolfsdottir trascina lo spettatore in un tour de force a cui ogni spettatore saprà relazionarsi.
Attraverso la figura di Maria, lo sguardo di Ingolfsdottir scruta con acume le mille difficoltà che si presentano nel tenere insieme il rapporto amoroso, offrendo il ritratto di una donna alle prese con il carico logistico ed emotivo di una famiglia intera, spesso sbilanciato sulle sue spalle. Lo fa però senza adagiarsi nel luogo comune, e cercando una sua strada con una lucidità d’analisi tutta scandinava.
Il titolo italiano assolve la protagonista più di quanto non facciano l’originale norvegese o quello internazionale (Loveable), che invece indagano con ironia una dimensione individuale, di cui i rapporti esterni sono solo il riflesso. E infatti il film, pur rimanendo anche una spinosa anatomia di una separazione, prende una piega decisa verso l’autoanalisi e l’importanza del rapporto con noi stessi – quello da cui nessun divorzio o pausa di riflessione ci potrà mai salvare.

Il trait d’union con La persona peggiore del mondo è labile e si limita a uno dei produttori, (Thomas Robsahm) eppure è comprensibile, visto che quello di Trier è il film norvegese di più alto profilo in questo decennio e gli argomenti sono simili. Ma Trier vola alto e fa cinema simbolico, mentre Ingolfsdottir rimane con i piedi per terra e da lì raccoglie con pazienza i pezzi sparsi di una vita già vissuta. In questo il suo approccio analitico ha più in comune con la trilogia Sex Love Dreams di Dag Johan Haugerud, e scava profondo nella figura di Maria fin quasi a strapparle via l’anima. È un film doloroso, ben condotto da Helga Guren la cui performance nel ruolo della protagonista è un’escursione intrepida tra le pieghe di un lungo nervo scoperto.
Al primo lungometraggio (ma forte di una corposa esperienza nei corti), la regista scivola a volte in una dimensione troppo letterale o inutilmente melodrammatica, in un’opera altrimenti scritta con buon senso della misura. Si tratta però di pochi momenti, ampiamente ripagati da un’esplorazione profonda dei limiti e delle mancanze che una persona può avere come partner. Se raccontare la fine di un amore è piuttosto comune, questa storia sembra chiederci un passo in più, domandando se le cause siano sempre state lì, dentro di noi.

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Maria è una donna di mezza età ormai divorziata. Un paio di figlioletti al seguito e una storia d’amore apparentemente perfetta, capace addirittura di ricondurla alla vita e alla serenità. Con Sigmund infatti tutto sembra andare per il meglio, almeno finché la scintilla continua a brillare, mantenendosi viva, nonostante le fragilità reciproche e i colpi accusati dall’abbandono del passato. Prevedibilmente il plot narrativo de La solitudine dei non amati non è affatto quello di qualsiasi altra rom-com esistente, tanto nel cinema norvegese, quanto in quello europeo o statunitense. Poiché è esclusivamente il reale ad attirare lo sguardo e la penna dell’esordiente Lilja Ingolfsdottir. A Maria infatti non è concesso che un tempo estremamente breve affinché possa amare senza riserve, divertendosi addirittura, ignorando sé stessa e i rischi di una relazione potenzialmente dannosa.
Quando la favola finisce, il reale irrompe e la crepa da riparare lo sappiamo bene è profonda e complessa, ogni giorno di più, ulteriormente minata da un’assenza totale di dialogo e comprensione reciproca tra le parti coinvolte. Non è detto infatti che l’amore abbia raggiunto il capolinea. È scontato invece che lo abbia raggiunto l’elemento imprescindibile dell’ascolto. Per questo, le domande che Ingolfsdottir pone a ciascuno di noi non possono che essere le seguenti: Maria e Sigmund si sono ascoltati per tutto il tempo, oppure non lo hanno fatto mai? E voi? Quanti ancora restano, pur non rintracciando da tempo, il momento dell’ascolto?

Tra i due seguirà il percorso della terapia e così l’inevitabile resa dei conti, seguita dalla consapevolezza, a questo punto sì immediata, che gli individui non sono perfetti e vanno ascoltati e conosciuti esattamente per ciò che sono, non per ciò che noi vorremmo che fossero. Lo apprenderà Maria tra le lacrime, farà lo stesso Sigmund. Eppure Ingolfsdottir non intende affatto perseguire il convenzionale, soffermandosi dapprima sullo sguardo – la macchina da presa indaga morbosamente tanto i volti e i corpi degli interpreti, quanto i vuoti e le assenze delle emozioni e così delle abitazioni – e poi sulle parole di un cinema curiosamente in bilico tra finzione e documentaristico.
Un film di chiaroscuri, di protagonisti respingenti e quasi mai affabili, né tantomeno empatici – se non al momento dell’attesa conclusione – e di esplorazioni profonde, puramente legate alle zone buie dell’abbandono e dei traumi del tempo. Quelli mai discussi, né tantomeno elaborati. Maria per questo è incapace di accettare l’amore, trovandosi complessa a tal punto da non sopportarsi più, detestando dunque qualsiasi forma d’amore. Seguirà infatti l’odio, dapprima per sé stessa e poi per gli altri. Sigmund osserverà invece le conseguenze di un’evidente immaturità emotiva, alle prese con una matassa da sbrogliare ancor più grande di lui e dell’amore che aveva fin da subito immaginato di riuscire a dare, ottenendo poco, se non addirittura niente in cambio.

Raramente abbiamo rintracciato nella cinematografia recente un lungometraggio capace di fotografare con tale maturità, distacco e dolore, tanto gli angoli luminosi ed empatici degli individui e della dinamica amorosa, quanto quelli respingenti, cupi e insopportabilmente algidi della stessa. La solitudine dei non amati ci racconta proprio questo. C’è un club al quale forse anche noi – tu, voi in lettura – apparteniamo pur inconsapevolmente. Un club di individui capaci di ricevere amore, ma non in grado di restituirne altrettanto. Vuoi per precedenti abbandoni, oppure per questioni di fiducia tradita.
L’ascolto però, come detto da Lilja Ingolfsdottir, salva la vita e così gli individui e le loro relazioni. Ascoltatevi e forse vi amerete, restate sordi e muti e l’amore vi troverà insopportabilmente distanti, tanto da considerarvi estranei,
abbandonandovi una volta per tutte. Sarà la fine, sarà il tempo della distribuzione delle colpe. Ancora gli inizi, eppure come detto, è la conclusione. Ingolfsdottir sospende il giudizio e lo sguardo. Siamo noi a scegliere. Qual è la nostra verità?

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