Petra Biondina Volpe

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Prendere nota, è così che si gira un film. Asciutto, diretto, estremo. Confinato in uno spazio che diventa parte integrante di una storia normale, e per questo ancora più potente. Potente ma mai melenso, mai ridondante, mai ricattatorio. Senza sfruttare l’ego ma anzi delineando un contesto verace e reale. Insomma, L’ultimo turno di Petra Volpe è un manuale di regia, di narrativa, di interpretazione. Novanta minuti secchi e l’aria che si contorce, che diventa irrespirabile, tra i solventi, l’urina, i disinfettanti. L’adrenalina a mille, il referto che non arriva, l’ascensore bloccato. L’ecosistema drammatico, il palco in cui una storia ne sfiora altre e poi altre ancora. Tutto legato, tutti legati. Con una suggestione, e una domanda che poniamo: possibile che in Italia film del genere non sappiamo (o non vogliamo?) produrli?
Scritto dalla stessa Petra Volpe, il plot de L’ultimo turno si potrebbe riassumere in mezza riga: l’insostenibile turno di un’infermiera. Protagonista Floria, interpretata da Leonie Benesch. Parentesi d’obbligo: l’attrice tedesca, in questo momento, è tra le migliori in Europa. Floria è, appunto, un’infermiera che lavora nel reparto di chirurgia (e non solo) di un ospedale svizzero. Una clinica moderna, pulita, ma a corto di tempo: non ci sono abbastanza infermieri. Floria, esperta, diligente, precisa, viene allora sballottata da un piano all’altro. Stanza dopo stanza, paziente dopo paziente. Le flebo, i parenti in attesa, il giro dell’antibiotico che ritarda, perché c’è sempre qualcosa di più urgente che preme e artiglia una routine pronta ad infiammarsi. Nervi saldi, pazienza infinita, e il tempo che si relativizza. Una madre malata, un signore che attende la diagnosi, un paziente arrogante e viziato. Troppo carico, troppa tensione. La crisi di nervi incombe, e il turno finisce per esplodere.
Ciò che più colpisce de L’ultimo turno è il costante movimento. Tutto si muove, tutto corre e scorre in funzione del protagonista che lega gli eventi: il tempo. Petra Volpe, presentando il film, definisce il tempo come il vero nemico. Nulla di più vero. Inarrestabile, onnisciente, spietato. La leva su cui si forma la storia, esaltata da un’andatura che cresce, alzando un ritmo tenuto sotto controllo dalla musica di Emilie Levienaise-Farrouch e dal montaggio di Hansjörg Weißbrich. Un’esperienza radicale, che racconta una normalità trasfigurata in un grande spettacolo horror. Tutto riflette la crescente tensione, e tutto finisce per tradurre al meglio l’ansia di Floria, in un bilanciamento tra tragedia e dolcezza. La regista, allora, perseguendo un cinema in cui la verità è il punto fisso, non può mai allentare la presa, portando – come raramente accade – in primo piano lo sfondo tipico dei tanti medical drama che popolano cinema e tv: Petra Volpe racconta una storia dal basso, il qui ed ora di una semplice infermiera, puntando l’attenzione sulla reale e complessa responsabilità di quei camici a metà che si aggirano tra una corsia e l’altra, vittime di un sistema sanitario senza scrupoli e senza empatia. Ecco perché L’ultimo turno, mai pietistico, reagisce umanizzando la professione. Una reazione ferma, arrabbiata e decisa. Una reazione uguale e contraria verso quel mondo che ha dimenticato di stringere la mano a coloro rimasti senza speranza. L’ultimo turno di Petra Volpe, lo sguardo ammaccato di Leonie Benesch e le luci fredde di un ospedale. È questo il cinema migliore.
Un manuale di cinema. Regia, interpretazioni, messa in scena, emozioni, musica. Ne L’ultimo turno lo spazio e il tempo sono gli elementi utilizzati da Petra Volpe per costruire la tensione, ambientando tutto all’interno di un ospedale svizzero. Il lavoro di un’infermiera è scandito con puntualità e verità, facendo risaltare una sceneggiatura a dir poco perfetta, e soprattutto mai pietistica. Leonie Benesch fuoriclasse.
Spesso e volentieri sono le prime persone che vediamo quando veniamo al mondo. E le ultime prima di andarcene. Cinque anni fa, durante l’emergenza Covid, li chiamavamo “angeli”, “eroi”.
Ed è così che la svizzera Petra Volpe ha deciso di titolare il suo terzo lungometraggio, Heldin (eroina, in tedesco), già presentato allo scorso Festival di Berlino (Special Gala), ora dal 20 agosto nelle nostre sale con il titolo italiano L’ultimo turno.
L’eroina in questione è Floria, infermiera di un ospedale cantonale che lavora con passione e professionalità, cercando di prestare ascolto a tutti i pazienti del suo reparto, sovraffollato e a corto di personale.
Medical drama con i ritmi del thriller, il film della regista elvetica si spoglia di tutti gli orpelli cari a prodotti seriali e iconici (da E.R. a Grey’s Anatomy, passando per Chicago Med fino ad arrivare all’imminente The Pitt), o meglio riesce nel non facile compito di saper mantenere vivido il grado di intrattenimento calibrandolo però alla tematica di urgenza sociale che, sin dall’inizio, ne ha mosso gli intenti.
Sì, perché all’origine della sceneggiatura c’è un dato agghiacciante, rivelato da uno studio condotto dalla società di consulenza PwC, ovvero che entro il 2040 in Svizzera mancheranno circa 40mila infermieri e se il livello di formazione resterà commisurato ai parametri attuali, malgrado l’invecchiamento della popolazione, la domanda di professionisti socio-sanitari non potrà più essere soddisfatta a partire dal 2029. E l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nel 2030 mancheranno già circa 13 milioni di infermieri in tutto il mondo.
L’altra fonte d’ispirazione per la realizzazione del film è stato il saggio Unser Beruf ist nicht das Problem. Es sind die Umstände (“Il problema non è la nostra professione, sono le circostanze”) di Madeline Calvelage, ingaggiata poi come consulente per la stesura dello script: scelta felice, insieme a quella dell’attrice protagonista, perché la sensazione costante è quella di ritrovarsi sempre lì, nei corridoi e nelle varie stanze che ospitano i degenti di vario tipo, sempre insieme a Floria che – dall’inizio alla fine di quell’ultimo turno – si ferma solamente una manciata di minuti (forse meno) per riascoltare al telefono la voce della sua bambina.
È un film di rara umanità, questo di Petra Volpe, che non si vergogna di prendere le parti della sua eroina ma che al tempo stesso sa restituire con credibilità e naturalezza le molteplici sfumature dei vari caratteri che popolano il reparto dove si muove, come una pallina da ping-pong, la protagonista: una giovane madre gravemente malata, un anziano signore che attende con apprensione la sua diagnosi, un uomo che dall’alto della sua assicurazione privata pretenderebbe un trattamento privilegiato, e tanti altri ancora. Oltre, naturalmente, ai familiari dei pazienti, chi sul luogo, chi da remoto (al telefono), chi più educato, e rispettoso, chi meno.
È quindi anche un film di resistenza, fisica, psicologica, paragonabile alla performance sportiva, un tour de force dove l’infermiera è l’unico soldato in prima linea, trait d’union tra il malato e il medico (che, chissà quando, tornerà per fornire delucidazioni su referti o quant’altro), dove l’imprevisto è sempre lì, in agguato, dietro l’angolo, e dove la morte può arrivare così, dall’altra stanza, senza particolari preavvisi.
Anche lì, in un’altra sequenza che non ha bisogno di chissà quali ulteriori fronzoli, l’empatia di una donna come Floria ci ricorda che può bastare un piccolo gesto per continuare a prendersi cura. Proprio come vuole fare questo film, gesto artistico capace di ricordarci l’importanza di figure – professionali, umane – troppo spesso date per scontate.