Guido Chiesa

DATI TECNICI
Regia
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Nazionalità
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Presentazione e critica
In ospedale, al capezzale di sua madre, l’americana Esther Horowitz riceve una lettera con una missione: rintracciare in Israele una donna vissuta negli anni Trenta in quelle terre. Tra una peripezia e l’altra, spinta dall’urgenza di scoprire la verità si farà aiutare dal professore Zayde e scoprirà la storia del contadino vedovo Moshe e della grintosa Yehudit, che coinvolse anche il romantico sognatore Yaakov e il pratico commerciante Globerman in una sorta di “tribù” di padri protettori per il figlio. In comune le due donne, di epoche diverse, hanno un destino, un cammino e una convinzione: l’amore è ciò che salva.
Una toccante storia di amore e riscoperta delle proprie radici con figure femminili finalmente centrali.
Tratto dal romanzo “The Loves Of Judith” di Meir Shalev, l’ambizioso Per amore di una donna di Guido Chiesa è un suggestivo intreccio di presente e passato attraverso la storia di due donne dal vissuto complesso. Esther è un’americana con un matrimonio fallito alle spalle, ora alle prese con il lutto di sua madre. È determinata a portare avanti un’indagine per tenere fede al patto di rintracciare una donna a Israele. Cioè Yehudit, indipendente, libera, carismatica, pronta a rimboccarsi le maniche per abbracciare, nella Palestina degli anni Trenta sotto dominio britannico, la “dura vita dei coloni” e sfidare le regole della società patriarcale e rurale del tempo per imporre le proprie.
Chiesa, che oltre alla regia firma anche la sceneggiatura dell’opera con Nicoletta Micheli, mette in atto un interessante gioco narrativo e visivo di alternanza di epoche, registri, stili, e lingue (inglese e ebraica) con uno sguardo più colorato, poetico e bucolico al passato.
I ruoli femminili risultano assolutamente centrali e di spessore, forti delle convincenti interpretazioni della memorabile Ana Ularu e di Mili Avital, ma convincono anche i personaggi maschili, specie il professore universitario malato Zayde interpretato da Ori Pfeffer. È a lui che Esther si rivolge, è con lui che inizia a schiudere il suo guscio di dolore ed è con lui che si confronta a più riprese, fino a legarsi in un rapporto di fiducia e confidenza reciproca in crescendo, parallelo allo sviluppo delle indagini sulle verità da scoprire.
Ma questo film non è un giallo, non è un thriller, non è un film storico, e non è solo un film che racconta l’esperienza degli ebrei che a inizio Novecento lasciarono l’Europa per sfuggire alle persecuzioni con il proposito di costruire una nuova società. È una storia sull’importanza delle proprie radici, sulla genitorialità intesa come altro dai meri legami di sangue, sul senso protettivo della co(i)mmunità e sulla forza delle donne e la loro determinazione ad andare avanti malgrado tutto.
L’indipendenza ostinata di Yehudit resta impressa, come la sua forza nel rivendicare la sua, e solo la sua, genitorialità sul figlio («Chi ti ha messo incinta?» «Io»), ma anche la determinazione e la cura di Esther nello scavare a fondo sul proprio passato, senza fermarsi di fronte alle violenze, né di fronte a segreti che possono far male. A stemperare il dramma del film ci pensa, su tutti, un italiano, Vincenzo Nemolato nei panni del napoletano antimussoliniano Salvatore, catturato a El Alamein, esperto di zabaione e stratagemmi sentimentali. I sentimenti e la loro imprevedibile potenza sono centrali nel film, dove alla durezza di Yehudit fa da contraltare la vulnerabilità degli uomini attorno a lei, chi ferito dalla vita, chi perdutamente innamorato.
Alla fine Per amore di una donna si rivela – come il titolo anticipa – una plurisfaccettata storia d’amore (a due binari, due epoche e più trascorsi emotivi), in cui l’altro è ancora di salvezza, empatia e supporto insostituibile, in una parola: casa. Con tutte le metafore politiche che questo implica in una terra come quella: «Torniamo a casa. Casa è [un posto] migliore»
1978, Stati Uniti. Presente riluttante alla morte di sua madre, l’inquieta quarantenne Esther si vede consegnare come strana eredità della defunta un ciondolo, una foto strappata e una missione: volare in Israele per rintracciare la donna alla quale sono appartenuti. Lì, con l’aiuto del ricercatore Zayde, rimette insieme i tasselli della vita della madre di quest’ultimo, Yehudit, che nella Palestina britannica degli anni Trenta rivendicò una libertà e un’autodeterminazione pari solo al dolore che patì. Ma cosa lega la madre di Esther alla madre di Zayde?
Con Per amore di una donna, Guido Chiesa porta sullo schermo il romanzo “The Loves of Judith” (1994) di Meir Shalev, adattandolo con Nicoletta Micheli. L’ambientazione tra Palestina e Israele, di questi tempi, rischia di assumere solo una connotazione politica, che può offuscare l’anima effettiva del racconto, con radici in realtà nella dimensione più utopica (e urgente) degli insediamenti ebraici nel protettorato britannico, nel corso degli anni Trenta e prima della nascita dello Stato di Israele nel 1948. L’elemento più affascinante della narrazione, in parte a rischio nella versione italiana dove si perdono gli accenti, è proprio nella descrizione di quel mondo multiculturale in fuga, che trovò rifugio in comunità di stampo vagamente socialista, con l’inglese usato come lingua franca, prima che divenisse la prassi mondiale attuale. Il personaggio di Yehudit, amata da tre uomini molto diversi, è come il catalizzatore di questo villaggio globale: il padre di famiglia vedovo Moshe, l’affarista pragmatico Globerman e il sognatore Yaakov rappresentano una convivenza pacifica ante litteram. Amata da tutti e tre, Yehudit si unisce a turno con tutti nella stessa notte, in modo tale da rendere loro impossibile determinare chi sia il padre di Zayde. Per amore di lei, i tre finiscono per accettare questo assetto, decisamente più confuso da comprendere per il bambino.
Non si tratta tuttavia di soluzioni perfette, perché la narrazione rimane giustamente inquieta e instabile, suggerendo, dietro qualche iniziale mistero da svelare, che Yehudit abbia ottime ragioni per tenere a bada gli uomini in questa maniera, trovando una sua accidentata strada per non dipendere troppo da uno. Anche tramite alcuni dialoghi in campo e controcampo volutamente fuori sincrono, l’inquietudine si riflette parallela in quella di Esther che, ricostruendo il tragitto tormentato dell’identità di Yehudit tramite i racconti del figlio Zayde, deve ricostruire la propria identità allo sbando, riscoprendo le proprie radici. Capendo come, nel mondo contemporaneo, si possano riequilibare le sorti e preservare ogni tipo di famiglia, così come fece coraggiosamente Yehudit oltre quarant’anni prima. La regia intreccia passato e presente limitando o annullando soluzioni di continuità, spesso negli stessi ambienti che portano l’eco di chi vi agì decenni prima, recuperando forse proprio in questa chiave un peso politico: nell’oggi le utopie di un tempo si sono infrante in un mai risolto “due popoli due stati”.
Funziona molto bene tutto il cast internazionale, almeno nella versione in lingua originale che abbiamo avuto modo di guardare, perché l’appiattimento del doppiaggio pur professionale potrebbe far pesare il retrogusto più melodrammatico della vicenda. La struttura “gialla” dell’indagine di Esther ha un epilogo facilmente intuibile molto prima dei protagonisti, ma è il sapore della luce, delle ambientazioni e dei suoni a evitare di derubricare il film a una fiction per il grande schermo. E quei suoni passano anche dalla comunicazione verbale, da quella volontà di parlarsi, di ascoltarsi e di comprendersi nonostante gli ostacoli: principio fondante della migliore convivenza tra uomo e donna… e tra popoli