Sons

Gustav Möller

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Nel suo lavoro di guardia carceraria Eva ha una scorza dura ma sembra capace di fare la differenza trattando i detenuti con cui lavora ogni giorno con una certa umanità. Dallo studio alla meditazione, la donna si spende come può nella sua missione. Un giorno però scorge una faccia nuova in cortile, quella di Mikkel, riconoscendo subito in lui il giovane uomo che qualche anno prima, durante una lite proprio in carcere, ha accoltellato e ucciso suo figlio, anche lui detenuto. Sopraffatta dall'odio verso chi le ha tolto il suo Simon, Eva inizia a oltrepassare dei confini prima professionali e poi morali per punire ulteriormente Mikkel, senza però riuscire a fermarsi.
DATI TECNICI
Regia
Gustav Möller
Interpreti
Dar Salim, Sidse Babett Knudsen, Jacob Lohmann, Sebastian Bull, Marina Bouras, Olaf Johannessen, Thomas Voss, Ida Cæcilie Rasmussen, Siir Tilif, Frantz Dupuis, Rami Zayat
Durata
100 min.
Sceneggiatura
Emil Nygaard Albertsen, Gustav Möller
Fotografia
Jasper Spanning
Montaggio
Rasmus Stensgaard Madsen
Musiche
Jon Ekstrand
Distribuzione
Movies Inspired
Nazionalità
Danimarca, Svezia
Anno
2022

Presentazione e critica

Eva è una secondina gentile e crede davvero che il carcere possa essere un luogo di riabilitazione. Con i detenuti ha un rapporto costruttivo: dà ripetizioni di matematica, fa yoga, chiede com’è andata la notte, controlla con sincera premura. Vogter – che in danese significa guardia – stringe l’inquadratura proprio su lei, quasi fosse un character study: fa parte di un sistema, il carcere, e ha fiducia nella sua missione, perciò la vediamo completamente calata nell’ambiente, tant’è che è anche cromaticamente intonata ai colori freddi di quello spazio. Ma Vogter, opera seconda di Gustav Möller dopo il bel The Guilty – Il colpevole (il tema della responsabilità collettiva torna anche qui), in Concorso a Berlino 74, non è solo lo studio di un personaggio in relazione all’ambiente che abita (è come se non avesse una casa, come se quel mondo fosse tutto il suo mondo o quello che le resta). È una tragedia antiretorica che si fonda su elementi archetipici: la maternità negata, l’elaborazione di un trauma, l’espiazione impossibile, l’agnizione finale. Quando entra un carcere un ragazzo che ha qualcosa a che fare con il suo passato, Eva chiede di poter essere trasferita nel Centro Zero, il reparto di massima sicurezza in cui sono relegati i detenuti più pericolosi e violenti, compreso il nuovo arrivato, e in cui lavorano le guardie con meno pelo sullo stomaco (si allenano ogni giorno per fronteggiare alle intemperanze dei carcerati e ricorrono frequentemente a brutali misure di contenimento). Non è un caso che il corridoio che collega il carcere “normale” a quello duro sembri una via verso l’inferno, con le sue tonalità accese e scarlatte (fotografia di Jasper J. Spanning): in quel blocco non c’è speranza, non c’è possibilità di redenzione, non c’è salvezza. Ma Eva non si è fatta trasferire solo per una battaglia idealista: c’è dell’altro, c’è qualcosa di indicibile, c’è la vita di chi resta. Ancora una volta un film di Möller si tradisce nella traduzione: il titolo internazionale, Sons, figli maschi, dice già tutto. Come The Guilty, anche questo si regge su un’idea forte tanto aderente alla cultura nazionale quanto comprensibile a ogni latitudine, intrecciando la tensione palpitante del prison movie con un dilemma morale che non lascia scampo: il desiderio di vendetta può coincidere con il senso di giustizia?

Vogter è un film incessante che non si riduce a un teorema: le azioni, i gesti, gli sguardi costruiscono la relazione tra carceriera (la straordinaria Sidse Babett Knudsen) e prigioniero senza troppi schematismi, i momenti più forti (gli effetti delle torture psicologiche) evitano la pornografia del trauma, la claustrofobia si libera in uno straziante pre-finale en plein air che finisce per sottolineare ulteriormente un senso di chiusura opprimente, forse necessario per potersi aprire alla possibilità di un futuro. Perché – ci risiamo – i singoli non possono farcela da soli.

Cinematografo

L’approccio al cinema del danese Gustav Möller è intimista e fatto di grandi contrasti. La sua idea del mondo è probabilmente la stessa dell’umanità protagonista dei suoi film: spezzata da dei drammi che cerca di trattare con la distanza e un raziocinio che una divisa può rappresentare, mentre inconsapevolmente sono alla ricerca di qualcosa che gli restituisca un’integrità. Nella prima pellicola del regista questo aspetto era inteso in un senso sociale e comunitario, il gioco era quindi intorno alla capacità di comprendere ed empatizzare con l’altro. In Sons, invece, presentato in concorso alla Berlinale 74, il focus è interamente dedicato ad un rapporto di tipo genitoriale (come il titolo lascia, purtroppo, intendere, smascherando un po’ il film). Per farlo, Möller recupera la costruzione tensiva a lui cara, ma restringe ancora di più lo spazio di azione dei suoi personaggi e lavora quasi sempre di primi piani, approfittando della presenza di una grande attrice come Sidse Babett Knudsen, per evidenziare i contrasti di cui sopra. Dietro i gelidi archetipi del prison movie, l’ultima pellicola del regista danese, nasconde un bollente trattato psicanalitico. Eva è una secondina che crede profondamente nella sua missione: riabilitare i carcerati così da poterli restituire ad una vita sociale dignitosa. Ci crede così tanto che ciò che la muove sembra provenga da una sua storia personale piuttosto che da un mandato lavorativo. Si spende molto per i detenuti del suo dipartimento, anche tenendo in prima persona dei corsi di yoga aperti a tutti. Le cose cambiano quando nel penitenziario arriva un ragazzo di nome Mikkel, ultimo acquisto dell’ala dedicata ai criminali più pericolosi, quelli per cui un recupero non è possibile e il cui unico destino è, dunque, quello di rimanere dietro le sbarre per tutta la vita. Dopo la comparsa del ragazzo Eva decide di farsi trasferire per raggiungerlo.

Con il giovane Eva pian piano si trasforma, riversando su di lui un’aggressività che cozza con lo spirito che l’ha sempre mossa nello svolgimento del suo lavoro, arrivando a compiere dei veri e propri abusi di potere. Ad un certo punto però la donna compirà un passo falso, mostrando il fianco a Mikkel, il quale, tenendola sotto ricatto, la costringe a dare una mano anche a lui, proprio come ha fatto con tutti gli altri detenuti. Sons è una pellicola schematica a livello di struttura e ferrea nella sua scansione del ritmo narrativo. La prima parte è più lenta e pone le basi per uno sguardo che rimane fisso sul personaggio di Sidse Babett Knudsen, che dal canto suo regge benissimo il minutaggio a lei dedicato, divenendo la bussola dello spettatore. La seconda deflagra, rivelando una violenza inedita nella protagonista e scatendando un incendio che per un momento dà l’impressione di sciogliere il metallo della prigione, salvo poi rientrare nei ranghi. Anche se è all’aria aperta che la pellicola trova la sua soluzione.

La storia che racconta Gustav Möller è quella dell’elaborazione di un lutto incredibilmente difficile, che viene scossa attraverso un improvviso risveglio traumatico. Quella a cui assistiamo è una violenta e forzata proiezione di un dolore mai sopito e il cui ripresentarsi comporta un’esplosione di aggressività che se non sublimata può condurre alla distruzione. Un percorso difficile, che noi vediamo rappresentato straordinariamente bene sul volto e nelle azioni della protagonista. Il terreno in cui si muove il film permette allo spettatore un’immedesimazione e, quindi, una riflessione al riparo dai dilemmi morali e completamente aretorica. Il ragionamento che fa Sons riguarda la sofferenza e la necessità di non farsi comandare da essa, per quanto incredibilmente penoso possa essere conviverci. Interessante come una grande parte del suo discorso cinematografico sia dedicato al depotenziamento della dimensione carceraria, geometrica e razionale, come via di contenimento di questo dolore e degli impulsi che da esso scaturiscono. Non si può pensare di prendere il nostro malessere e rinchiuderlo in un antro remoto dentro noi stessi. Bisogna piuttosto guardarlo negli occhi, oltre qualsiasi tipo di barriera.

Movieplayer

(…) Thriller psicologico, prison movie al contrario, ma anche, a suo modo, dramma familiare, Vogter mette in scena un duello costante, e pieno di oscillazioni, tra Eva e Mikkel. La prima si spinge a superare i limiti della legge e della morale nel nome della vendetta, il secondo diventa una sorta di vittima, ma i rapporti di forza si ribaltano, si innescano nuove leve psicologiche, Eva viene messa all’angolo. Il tutto, mentre sottotraccia scorre, elettrico, il tema della maternità, delle difficoltà di un genitore di fronte a un figlio ribelle, violento, che non sa come prendere. Il naturalismo documentaristico che caratterizza buona parte del film si scioglie, a tratti, in momenti da thriller puro, e la tensione tra i due protagonisti (Sidse Babett Knudsen e Sebastian Bull, bravissimi entrambi) è così forte, e carica di violenza inesplosa, da riuscire a trasmettere una tensione che si traduce in un fastidio quasi fisico. La forza delle intepretazioni, e delle cariche psicologiche di questi due personaggi fanno passare in secondo piano il fatto che, in termini di plausibilità, molte delle situazioni messe in scena da Möller non stiano tanto in piedi, e anche un relativo schematismo con il quale il danese ragiona sulla questione della colpa, della vendetta, della redenzione. Sono, lo abbiamo detto, gli stessi temi di Il colpevole, che aveva peraltro dalla sua la forza di un racconto insolito, innovativo e coraggioso. Coraggioso Möller forse lo è anche qui, ma di certo è anche più convenzionale: perlomeno nella forma e nella messa in scena. Ma in fondo, forse, più di ogni altra cosa, quella di Vogter è la storia di una madre che si sente di aver fallito in quanto tale, e che cerca il suo riscatto facendo da mamma, redentrice, ai suoi detenuti, fino a quando un doloroso rispecchiamento la riconduce a quello che è davvero: una donna prigioniera nel carcere di sé stessa, e del suo passato.

 

 

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