Scott Cooper

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
1981. Bruce Springsteen è reduce dal successo del River Tour che l’ha reso celebre ben oltre il nativo New Jersey, e la sua casa discografica vorrebbe subito un nuovo LP per “battere il ferro finché è caldo”. Ma lui è in piena crisi, dovuta in parte al senso di colpa nell’allontanarsi dalle sue origini e lasciarsi alle spalle quel mondo proletario di diner, flipper e casette di periferia, in parte al rapporto conflittuale con un padre che alzava il gomito e menava le mani. Ovunque lo seguono l’ombra scura che gli sta alle calcagna e quel vuoto dentro del quale non riesce a liberarsi se non quando, in una stanza del suo modesto appartamento, compone i brani che faranno parte del suo LP meno noto e più rispettato – Nebraska – ben lontani da ciò che la casa discografica si aspetta. Bruce vorrà che siano masterizzati esattamente come li ha registrati su un’audiocassetta (priva di custodia), e non vorrà fare tour, singoli o interviste: nemmeno mettere il suo viso sulla copertina.
Springsteen – Liberami dal nulla sceglie un momento particolare della vita e carriera del Boss per raccontare lo smarrimento identitario di un uomo e un artista che ha sempre avuto come priorità quella di non tradire se stesso. Ad assisterlo è il manager e produttore discografico Jon Landau che, pur comprendendo le esigenze della casa cinematografica, crede nell’onestà artistica di Springsteen. E Bruce, a 32 anni, rimane ferocemente attaccato alla sua verità e cerca la sua strada, anche se su di lui grava quella forma depressiva che lo accompagnerà per tutta la vita, e che affonda le radici nella sua infanzia tormentata. Jeremy Allen White (interprete di tutte le canzoni in scena) si cala nel tormento di Springsteen veicolando anche quello del Carmy Berzatto della serie The Bear e del Lip Gallagher di Shameless, trasformandosi letteralmente nel Boss nelle scene di concerto dove ne riproduce la gestualità e le smorfie tirate, mentre in quelle più intime evita di imitare il cantautore, concentrandosi sul metterne a nudo l’anima. Jeremy Strong è formidabile nel ruolo di Jon Landau, e si vorrebbe che il film rimanesse più a lungo sul rapporto fra i due uomini, nonché sulla chimica fra i due attori. Stesso dicasi per White e Stephen Graham, l’attore che interpetra il padre di Bruce. La tensione della trama si diluisce invece nelle scene che illustrano la storia sentimentale con Faye, madre single e cameriera del New Jersey cui Bruce non riesce a promettere un futuro, che appaiono superflue perché l’arco drammaturgico riguarda palesemente l’identità artistica del protagonista, più che la sua disponibilità emotiva ad intraprendere una relazione: ben più coinvolgenti infatti sono le scene che ripercorrono la creazione di alcuni dei brani dell’album Nebraska.
Il regista Scott Cooper evita saggiamente l’agiografia e gestisce bene l’alternanza fra arte e vita, facendo del suo film una ballata folk su un performer che ha sempre incarnato una parte ben precisa dell’identità statunitense: quella diseredata, blue collar, schietta e genuina. Il suo Bruce corrisponde al suono malinconico della sua armonica e a quella camminata sghemba che sa di solitudine, combatte con il fantasma del Male che si insinua nelle case della gente perbene e che demolisce ogni certezza.
“Le cose sbagliate mi sembrano giuste”, dirà Springsteen ai discografici che vorrebbero esecuzioni pulite e facilmente riproducibili, quando per lui il ritmo rallentato, le distorsioni, l’eco che sembra provenire dalle profondità della sua anima sono sacri e vanno tutelati ad ogni costo. Per paradosso, la genesi di Nebraska dal rock ad una sorta di folk acustico è speculare e contraria al passaggio di Bob Dylan dal folk al rock elettrico raccontato nel recente A Complete Unknown: il Boss torna alle sue radici, al fantasma di Tom Joad, allontanandosi temporaneamente dal rock spinto che caratterizzerà Born in the USA, che dal film di Cooper scopriamo essere nata negli stessi anni di Nebraska, e che diventerà il singolo di sfondamento dell’LP successivo, quello post crisi esistenziale. Così come in Nebraska Springsteen spoglia le sue composizioni da ogni inutile orpello e lascia respirare il suo cuore, in Springsteen – Liberami dal nulla Cooper estrapola il Boss dalla sua iconolatria e lo restituisce eroe analogico e paladino delle imperfezioni. Il suo album parlerà a chiunque cerca un’identità e un’appartenenza, comunicando un senso e una direzione mai scontati.
C’è un momento preciso nella prima parte di Springsteen: Liberami dal Nulla che definisce accuratamente il cuore del film di Scott Cooper. Il Boss con il volto di Jeremy Allen White, a bordo della sua nuova auto perfetta per una “dannata e bella rock star”, se ne sta tornando a Colts Neck nella casa appena presa in affitto in New Jersey. Alla radio passano Hungry Hearts, e Bruce, dopo un laconico No detto tra sé e sé, la spegne frettolosamente. Troppo rumore attorno a lui, troppe aspettative. Reduce dal River Tour del 1981, decide di tornare a casa per rallentare e “provare a cercare qualcosa di autentico”.
Lo troverà nella musica folk, nella visione di Furore di John Ford, ne La rabbia giovane e nella vera storia del serial killer Charles Starkweather che ispirò Terrence Malik, così come nella lettura dei racconti gotici di Flannery O’Connor che lo spingeranno a scrivere dei suoi ricordi d’infanzia. Ed è proprio sul bianco e nero del 1957 che si apre la pellicola. Quando Bruce, ancora bambino, veniva mandato dalla madre interpretata da Gaby Hoffman a recuperare il padre – un sempre gigantesco Stephen Graham – al bancone del bar dove trascorre il tempo a bere. Un copione sempre uguale che prosegue con furiose urla e grida tra le mura di una casa dove cresceva terrorizzato. Dopo aver debuttato al lungometraggio con Crazy Heart, in cui raccontava la storia ispirata a quella del cantante country Hank Thompson, Scott Cooper con Springsteen: Liberami dal Nulla si confronta con uno dei simboli più rappresentativi della musica degli Stati Uniti. Ma non ne celebra il mito, non ne fa un santino rock. Tutt’altro. Partendo dalle pagine di Deliver Me from Nowhere di Warren Zanes, Cooper scrive una sceneggiatura in cui al centro c’è il Bruce uomo. Quello dei traumi irrisolti, del rapporto complesso con il padre, della depressione, della paura di confrontarsi con se stesso e guardarsi dentro. Quello terrorizzato all’idea di esplodere a livello mondiale con la sua musica e di lasciarsi alle spalle il mondo da cui viene insieme alle persone che lo abitano.
Non un biopic, ma la fotografia di un momento preciso della sua esistenza. Dentro la camera da letto della sua casa, tra una chitarra acustica e un registratore a quattro tracce, Bruce Springsteen scrive un disco crudo, popolato di storie di uomini che provano a cambiare il corso delle loro esistenze senza riuscirci, di memorie della sua infanzia. Un album simile a una raccolta di racconti e non un insieme di singoli come si aspettava la casa discografica per continuare ad alimentare la macchina. Ad aiutare Springsteen nel realizzare l’album e a superare le sue difficoltà troviamo la figura chiave del suo storico manager Jon Landau. Uno degli incontri più importanti della sua vita, amico e confidente, oltre che figura paterna, che lo supporta e spalleggia nello svelare al mondo quelle 17 tracce che il Boss non volle spiegare né alla stampa né al suo pubblico. Una mossa poco ortodossa, eppure l’unica possibile quando tra le mani si maneggia materiale così delicato. Scott Cooper ci mostra la genesi dei brani, l’ossessione per il suono autentico e imperfetto, il tormento interiore del cantautore. (…) Ciò che funziona e traina Springsteen: Liberami dal Nulla è l’interpretazione di Jeremy Allen White che incarna in modo viscerale il cantautore statunitense. La sua è una prova emotivamente potente, con un grande lavoro sulla voce e la cadenza tipica del Boss. Ma, soprattutto, è un’interpretazione che ne abbraccia l’inquietudine e il vigore. Ne è un esempio la sequenza di registrazione di Born in the U.S.A. (uno dei pochi momenti prettamente musicali del film), intonata dall’attore come tutti i brani presenti del film.
Un’operazione simile a quella di James Mangold in A Complete Unknown con Timothée Chalamet nei panni di Bob Dylan. Due film che in qualche modo si parlano – specie nella “classicità” della messa in scena -, ma che raccontano due uomini/simboli agli antipodi. Se Dylan si è “nascosto” dietro un paio di occhiali da sole neri, Springsteen si è dato anima e corpo ai suoi fan accorciando le distanze, rappresentando la working class americana da cui viene e che non ha mai abbandonato. Uno dei temi su cui si focalizza Springsteen: Liberami dal Nulla. Un film malinconico come il suono di un’armonica folk su un uomo “born to run” che finalmente decide di smettere di correre per fermarsi e affrontare faccia a faccia “qualcosa che scorre nelle vene della mia famiglia”.
