The end

Joshua Oppenheimer

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Anni dopo una catastrofe climatica che ha estinto la vita sulla Terra, una famiglia di ex capitani d'industria vive ancora nel bunker sotterraneo dentro il quale si è rifugiata per sopravvivere. In un ambiente elegante e confortevole, la Madre, il Padre, un'amica di famiglia, il maggiordomo, il medico e una cameriera si occupano principalmente dell'educazione del Figlio, che ha una ventina d'anni e non ha mai conosciuto la vita di prima. L'arrivo di una ragazza da fuori, sopravvissuta al tentativo della sua famiglia di raggiungere il bunker, porta scompiglio. Il Figlio comincia a fare domande ai genitori sul senso della loro vita e sulle loro responsabilità nel disastro. Come difendere, dunque, un mondo strenuamente costruito?
DATI TECNICI
Regia
Joshua Oppenheimer
Interpreti
Tilda Swinton, George MacKay, Moses Ingram, Bronagh Gallagher, Tim McInnerny
Durata
148 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Rasmus Heisterberg, Joshua Oppenheimer
Fotografia
Mikhail Krichman
Montaggio
Nils Pagh Andersen
Musiche
Marius De Vries, Josh Schmidt
Distribuzione
I Wonder Pictures
Nazionalità
Danimarca, Germania, Irlanda, Italia, Svezia, USA
Anno
2024

Presentazione e critica

È sempre l’atto performativo, nell’ultimo cinema di Joshua Oppenheimer, a ridestare i personaggi/uomini dal torpore in cui sembrano inizialmente essere calati, e ad aprir loro gli occhi sulle realtà che li circondano e sui “peccati” che hanno commesso in passato. Che si tratti del risveglio della coscienza (non solo umana, ma anche politica) degli assassini fedeli al dittatore Suharto visti in The Act of Killing, o della presa d’atto dei traumi generati dai perpetratori del regime militarista indonesiano sui “comunisti” (o presunti tali) di The Look of Silence, è la presentazione ossessiva di una performance a tracciare le mappe emotive dei rispettivi film del grande documentarista statunitense. Non sorprende, perciò, che sia l’azione del re-enactment a destabilizzare emotivamente i protagonisti di tali opere, riportandone a galla anche quei traumi o sensi di colpa che avevano cercato, così a lungo, di occultare. Fattori che anche in un film di finzione qual è The End tornano ad esercitare la loro funzione “rivelatrice” proprio perché il lungometraggio, iscrivendosi nella cornice del musical, posiziona al centro del suo racconto degli atti performativi.

 

The End, al fine di mettere in moto il risveglio coscienziale dei membri di una famiglia solo apparentemente tradizionale, adotta quel particolare principio condiviso da innumerevoli narrazioni post-apocalittiche: ovvero che per raccontare un nuovo inizio, una rinascita o il capitolo introduttivo di una rinnovata esistenza, occorre partire da un azzeramento totale. Come esplicitato dall’incipit del film, sono trascorsi 25 anni dall’avvento di una non precisata catastrofe ambientale, che ha costretto gli innominati componenti di un nucleo familiare a vivere all’interno di un enorme bunker. Per un intero quarto di secolo un padre, una madre e un figlio hanno condotto le loro esistenze all’insegna della stasi e della routine, e la reiterazione quotidiana di azioni sempre uguali a sé stesse ha permesso agli eccentrici protagonisti di conservare almeno una parvenza di controllo su una realtà decisamente anomala e sfuggente. Ma l’arrivo improvviso di una ragazza (anche lei senza nome, ed interpretata da Moses Ingram) destabilizza dall’interno il flebile equilibrio conseguito dal terzetto, tanto da squarciare il velo delle illusioni che era calato sulle loro “fallaci” vite, spingendo così i personaggi a ragionare sulle loro esistenze pre-Apocalisse, sugli errori commessi nel lontano passato, e sulla condizione in cui si trovano drammaticamente a muoversi.

Ed è in questo contesto che va ricondotto l’uso, da parte di Oppenheimer, delle strategie del musical. Il genere in questione, il più prono a declinare l’incursione del sogno negli spazi della realtà – e lo ha dimostrato di recente anche Joker: Folie à Deux – permette al documentarista americano di rivelare, attraverso i linguaggi musicali, il corpus di fantasie e menzogne coltivate in profondità dai protagonisti. E più i personaggi di The End si profondono in canti e danze sconclusionate, più i “muri” da loro eretti per difendersi dai richiami avvilenti della realtà iniziano a sgretolarsi, per poi lasciare il posto all’emersione di ciò che fino a quel momento non aveva trovato un’occasione per emergere: la coscienza umana.

 

Sentieriselvaggi

Joshua Oppenheimer, autore di uno dei documentari più scioccanti degli anni Duemila (L’atto di uccidere), esordisce nel cinema di finzione con un musical che immagina un’umanità oltre la fine del mondo, condannata a vivere senza prospettive. The End è l’ennesimo prodotto di una società che sa pensare a sé stessa solamente nei termini di una continua, ormai stucchevole distopia. Come ha dichiarato il suo regista, nasce soprattutto dall’esperienza collettiva del lockdown dovuto alla pandemia di Covid e s’interroga sull’ossessione tutta contemporanea per la sicurezza, per la salvaguardia dei privilegi, mostrando personaggi che hanno rimosso traumi e responsabilità in nome della sopravvivenza. La sua particolarità più evidente è quella di essere un musical in stile Broadway: le canzoni scritte dallo stesso Oppenheimer e musicate da Joshua Schmidt (compositore all’esordio nel cinema) sono eseguite dagli interpreti senza essere cantate ma piuttosto recitate. Tilda Swinton è la Madre, ex ballerina che tiene più di ogni cosa alla conservazione del suo mondo chiuso e in costante pericolo («Ogni macchia che ignoriamo è il segno della nostra resa», dice spiegando la pignoleria con cui cura l’ordine della casa e rende ogni giorno uguale a quello precedente); Michael Shannon è l’ex patriarca che ammette di aver contribuito al surriscaldamento globale, ma che al Figlio a cui fa scrivere la sua biografia nasconde i propri misfatti; il Figlio, dal canto suo, non si è mai affacciato alla vita o alla natura, la morte la conosce solo dai racconti delle poche persone che ha mai conosciuto (l’amica della madre, ad esempio, che ha perso il marito per malattia) e quando incontra l’altro sesso, nella forma della Ragazza, se ne innamora senza attrazione sessuale e solo come atto di conoscenza. I personaggi chiave del film rimangono significativamente senza nome, come a indicare una condizione universale dell’essere umano o, letteralmente, le ultime persone esistenti sulla Terra: non tanto, o non solo, gli unici sopravvissuti, ma quelli che hanno fatto di tutto per essere gli unici a sopravvivere. L’assenza di una colpa o la sua rimozione da parte degli adulti – che anni prima hanno chiuso ad altri possibili ospiti le porte del loro rifugio sotterraneo, e non se ne sono mai pentiti (e se hanno incubi notturni fanno finta di niente) – e all’opposto la nascita di una coscienza diversa nei giovani (soprattutto nel Figlio, grazie alla presenza della Ragazza) segnano i due poli del conflitto generazione alla base di The End.

Eppure, nelle due ore e un quarto di visione (in qualche modo funzionali alla rappresentazione un mondo condannato a ripetere sé stesso per esistere), il dramma non esplode mai: è sempre a un passo, sempre possibile, ma mai raggiunto. Niente deflagra, in The End; nessuna possibile trama arriva a decollare.

E proprio questo aspetto – proprio per questa medietà di tono e di colori che non muta mai – più della componente musicale del film (che ha comunque momenti molto belli) va considerata la sua coraggiosa, benché monocorde, decisione di rappresentare una società umana ridotta all’osso e giunta ben oltre la sua fine. Una società che procede senza futuro, diretta verso il nulla. Immerso in atmosfere stranianti per eleganza e composizione figurativa – merito della scenografa Jette Lehmann e della costumista Frauke Firl, entrambe collaboratrici di von Trier (e si vede) per Antichrist e MelancholiaThe End sfiora a più riprese il kitsch per come cerca di dare forma simbolica allo spirito millenaristico di cui è imbevuto. Gli ambienti e le atmosfere ricordano titoli recenti come A Murder at the End of the World, Il mondo dietro di te o gli incubi narrativi sulla fine dell’umanità da The Last of Us in giù; il ritmo laconico e compassato di Oppenheimer appartiene però a una visione d’autore che ricorda piuttosto il mondo sotterraneo di Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson e che alla maniera di L’atto di uccidere cerca un doppio livello di rappresentazione (qui il realismo opposto al musical, là il reenactment opposto alla memoria) per raccontare la fine del mondo come un dramma familiare senza pathos. Un nascondiglio oscuro, protettivo, paradossalmente confortevole, che si pone come unica alternativa all’estinzione. In attesa di una bella morte che prima o poi arriverà. The End (…) è senza subbio coerente. E forse ci dice, non tanto chi saremo o chi potremmo essere, ma chi siamo.

 

Mymovies

(…) Oppenheimer realizza un film basato sullo scontro e sulla frizione degli opposti che lo costituiscono, finendo col creare un film ossimorico, determinato dalla contrapposizione fra generi discordanti, oltre che fra temi e forma con cui vengono presentati.

Nel primo caso, l’ambientazione apocalittica tipica del filone della fantascienza distopica viene associata ai balli e ai canti caratteristici del musical; nel secondo, la trattazione di tematiche attuali ed estremamente importanti, come il pericolo ecologico-ambientale e le spinte migratorie che premono sui confini europei e nordamericani (simboleggiati dalla ragazza nera che improvvisamente entra nel microcosmo della miniera abitata dalla ricca e borghese famiglia bianca), viene inserita in un contesto onirico, determinato dalle canzoni e dai balli propri del musical.

Questi contrasti vengono sottolineati dal regista tramite alcuni espedienti linguistici, a partire dal diverso uso della macchina da presa, divisa fra accentuato dinamismo proprio delle sequenze dedicate alle canzoni, in cui accompagna il movimento degli attori tanto da trasformarsi quasi in un altro personaggio, e statica fissità nelle altre scene.

Film affascinante per la sua capacità di trarre energia dalla contrapposizione degli elementi divergenti che lo compongono, The End è il terzo lungometraggio della carriera di Oppenheimer, regista capace di realizzare una filmografia stilisticamente coerente e riconoscibile, nonostante il numero esiguo di elementi che la costituiscono.

 

Cinematografo