The last showgirl

Gia Coppola

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The Last Showgirl, il film diretto da Gia Coppola, segue la storia di Shelly Gardner una showgirl di 57 anni che, dopo trent'anni a Las Vegas, deve fare i conti con la chiusura dello suo show e l'arrivo di una nuova produzione. Con la fine della sua carriera, Shelly si trova a riflettere sul proprio futuro, dato che non ha diritto a una pensione.
DATI TECNICI
Regia
Gia Coppola
Interpreti
Pamela Anderson, Kiernan Shipka, Brenda Song, Billie Lourd, Jamie Lee Curtis, Dave Bautista, John Clofine, Jason Schwartzman
Durata
89 min
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Kate Gersten
Fotografia
Autumn Durald Arkapaw
Montaggio
Blair McClendon, Cam McLauchlin
Musiche
Andrew Wyatt
Distribuzione
Be Water Film in collaborazione con Medusa Film
Nazionalità
USA
Anno
2025

Presentazione e critica

Shelly, una showgirl di Las Vegas vicina alla terza età, si ritrova improvvisamente senza lavoro perché lo spettacolo per cui lavora da decenni viene cancellato. Ciò scatena una serie di conseguenze nella sua fragile personalità: abituata a rifugiarsi in sciocche fantasie adolescenziali, è costretta a confrontarsi con la realtà che irrompe bruscamente con la fine del suo lavoro.
Gia Coppola firma un lungometraggio che si fonda con il corpo dell’attrice, Pamela Anderson, fino a coincidere con esso. L’ex icona erotica degli anni ’90 presta la propria immagine al film che carica su di essa le tematiche raccontate dando luogo ad un gioco di risonanze che si potenziano a vicenda: la fine delle illusioni della gioventù, la necessità di fare i conti con il presente e con le scelte fatte nel passato si concretizzano nella bellezza appassita di Pamela Anderson.

Coppola realizza quindi un film-corpo, un’opera che iscrive nell’immagine divistica dell’attrice lo scontro fra il proprio aspetto e il tentativo di rimanere nello show business in un presente che cambia inesorabilmente. Si tratta di una tendenza molto in voga nel cinema contemporaneo: basti pensare al magnifico The Substance e allo stesso uso simbolico dell’immagine di Demi Moore. Il film dichiara questo concetto sin dall’inizio, affidando i primi minuti a un piano sequenza incentrato sul viso della Anderson mentre il suo personaggio svolge un provino lavorativo.
La stessa ossessione impietosa per le superfici corporali ritorna nella scena successiva, ambientata nel camerino delle showgirl intente a prepararsi per lo spettacolo e fondata sulla contrapposizione fra corpi seminudi di età diverse, in particolare quello della Anderson rispetto alle sue colleghe più giovani.
L’estetica del film è fortemente debitrice del cinema indie statunitense: l’uso insistito di primi piani che pedinano le attrici e sembrano attaccarsi ai loro corpi; la prevalenza di inquadrature caratterizzate da una lunghezza media non breve al fine di favorire la recitazione delle interpreti; l’attenzione per la quotidianità dei personaggi, resa attraverso la scelta di set ordinari, come i supermercati e le vie secondarie di Las Vegas colme di parcheggi e di edifici anonimi.
Gia Coppola alterna quest’ultimo aspetto ad un’estetica opposta perché incentrata sulle superfici, caratterizzata dalle luci al neon notturne, dalle riprese in campi lunghissimi dell’architettura kitsch e postmoderna di Las Vegas, oltre che dai vestiti di scena vistosi e pieni di paillettes e bigiotteria.
Pamela Anderson fornisce un’interpretazione convincente basando la sua performance sulla voce, lavorando su una tonalità acuta e al contempo suadente, unita alla relazione fra viso e il resto del corpo, in particolare le mani, che usa per sfiorarsi e accarezzarsi il volto, e le spalle, verso cui avvicina la testa come se volesse nascondersi o proteggersi dalla realtà.
Anderson riesce a incarnare un personaggio caratterizzato da delicatezza e dolcezza unite a incertezza e preoccupazione, immaturo e bisognoso di punti di riferimento a cui aggrapparsi, funzione svolta anche e soprattutto dal trucco marcato e dagli sgargianti abiti da showgirl che indossa lungo tutto il film, maschere e al contempo protezioni con i quali si sente finalmente sicura.

Cinematografo

(…) Ultimo canto di un cigno chiamato a compiere il suo inchino finale, The Last Showgirl sfrutta appieno il concetto di paradosso: per un’opera, cioè, orientata al racconto di donne che sul proprio corpo hanno basato un’intera carriera, la macchina da presa di Gia Coppola) non indugia mai sul fisico delle sue protagoniste. Ai campi lunghi, la regista preferisce, cioè, i primi piani. Sono sguardi intimi, i suoi, atti a cogliere ogni sfumatura emotiva di chi è abituata a nascondersi dietro il movimento sensuale di un corpo svelato e (s)vestito di costumi succinti. Non più oggetto passivo da concedersi allo sguardo altrui, ora Shelly è mente pensante, agente attivo e soggetto pronto a decidere del proprio destino. Un ribaltamento che la regista non solo compie con la forza di ritratti compiuti su inquadrature ristrette, ma anche grazie alla performance dolce, fragile, sensibile, di una Pamela Anderson che in questo ruolo incontra un doppio simbiotico in cui ritrovarsi e immedesimarsi.
Come la sua Shelly, la Anderson ha passato gli anni a mostrarsi nel ruolo di orpello da osservare, frutto del peccato da desiderare. Era un corpo; poco importava la sostanza. Grazie a Gia Coppola l’attrice dimostra, invece, quella sensibilità così tante, troppe, volte soffocata sotto strati di trucco, corse sensuali, o pose ammiccanti. Non è un caso, allora, se spesso la sua protagonista si mostra nuda non tanto fisicamente, quanto interiormente: il volto privo di make-up è la metafora perfetta di quell’intenzione di rivelarsi al naturale, senza decorativismi inutili. È l’imperfezione dell’essere umano adesso, e non più il perfetto contenitore di carne e curve che lo incapsula, a catturare lo sguardo cinematografico della regista.

Accompagnando lo spettatore fra i crepacci profondi di un’ordinarietà minata da un già precario, principio di realtà, con The Last Showgirl Gia Coppola scrive un saggio di commovente introspezione. Lo fa affidandosi alla semplicità di un linguaggio ordinario, quotidiano, umile. Un linguaggio che non si esime dall’impiego di parolacce, o di sospesi silenzi, entro i quali confidare pensieri dolorosi, e timori pesanti come macigni. Figura materna per le proprie giovani colleghe, e madre assente per una figlia sentitasi invisibile, Shelly tenta di uscire da quel guscio che la trattiene per aprire finalmente quella conchiglia che fa da radice al suo nome (“shell”) e mostrarsi così sotto forma di madreperla. Il suo è un costante tentativo di porre a compimento quell’emancipazione per troppe volte rimandata, eppure così tanto agognata. Uno slancio personale che rischia di bloccarsi in un’ulteriore stasi, rendendola non più protagonista della propria storia, ma eterna comparsa. Una messa in pausa che ricorda tante eroine di Sofia Coppola (zia di Gia) e che in The Last Showgirl permette di delineare con più forza il comparto umano dell’opera, tralasciando il superfluo, l’accessorio, e lo stesso leggendario show Razzle Dazzle, ai confini del fuori campo.
Proprio perché giocato su un equilibrio costante tra ambizione, rivendicazione personale e porte sbattute in faccia, The Last Showgirl non eccede mai, vivendo piuttosto su una modestia costante. Non urla, ma sospira; non balla ma cammina sulle punte. Non sarà un film che rivoluzionerà il cinema hollywoodiano, The Last Showgirl, ma riuscirà comunque a lasciare una propria impronta nei meandri di un discorso sempre più pregnante atto a denunciare – anche con mezzi limitati e giocando in sottrazione – il mondo dilaniante e sabotante dello showbiz americano. (…)

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