Isaiah Saxon

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
In un piccolo villaggio della fittizia isola di Carpathia il tempo sembra essersi fermato e la vita scorre seguendo ancora ritmi rurali, disturbati solo da qualche automobile. Sull’isola vivono gli ochi, una specie di primati dal pelo bluastro e capace di comunicare con versi dalla strana musicalità. Gli uomini li cacciano da sempre e l’attuale capo dei cacciatori è Maxim, il padre di Yuri, una ragazzina introversa che si sfoga solo ascoltando la musica black metal degli Hell Throne. Quando trova un cucciolo ferito di ochi decide di accudirlo di nascosto e poi di aiutarlo a tornare a casa e ritrovare sua madre. Lungo il cammino realizzerà di saper comunicare con lui e ritroverà a sua volta la madre, che si era separata dal marito dopo una orrenda lite. Maxim si metterà però sulle tracce della figlia, insieme ad alcuni cacciatori bambini, tra cui Dasha, il fratello adottivo di Yuri.
Una fiaba realizzata con la magia vintage di un cinema dagli effetti speciali in larghissima parte analogici: animatronic, pittura matte e pupazzi. Straordinario il lavoro anche sulla colonna sonora (…) . Il cucciolo è un animatronic controllato da vari tecnici, un po’ come il Grogu di The Mandalorian per citare l’esempio più recente, mentre gli adulti sono interpretati da attori in una tuta, come nei capitoli originali di Il pianeta delle scimmie, ma per i primi piani sono state usati di nuovo delle teste animatroniche, garantendo una recitazione molto espressiva.
Inoltre l’uso della pittura matte, per trasformare gli sfondi ritoccando direttamente i fotogrammi, anziché ricorrendo alla più fredda computer graphic del green screen, garantisce un risultato magico, vagamente surreale, anche grazie all’uso delle luci di Evan Prosofsky. La colonna sonora poi, firmata da David Longstreth, inizia con un crescendo che fa ripensare a Das Rheingold di Wagner e continua a essere molto presente nel film, dando alla pellicola un incedere sinfonica. Per i suoni delle creature, infine, ci si è affidati per il 90% a un cantante dalla voce unica, mixandola a suoni di uccelli. Uno sforzo produttivo davvero meticoloso, un atto d’amore per il cinema analogico, per il fantastico su pellicola come non se ne vedevano da tempo.
Isaiah Saxon scrive e dirige un esordio che alla prima impressione può sembrare un semplice viaggio d’avventura che richiama i personaggi e le creature fantastiche delle opere per giovani degli anni Ottanta. Eppure, appena sotto la lettura più immediata, si arriva a un’opera che dalla sua confezione rivela un’idea di cinema ben più artistica e personale. Non che i mostriciattoli di Joe Dante o l’alieno di Steven Spielberg non lo siano – anzi, lo sono eccome.
Ma in The Legend of Ochi la ricerca di una poeticità, di un quadro pittorico che viene continuamente richiamato dagli sfondi disegnati a mano e un ritmo per nulla sincopato che annulla una fruizione per forza mainstream permettono alla pellicola e agli spettatori di addentrarsi in un universo che sembra insieme familiare e sconosciuto. Che de I Goonies ha il desiderio di coinvolgerci in un viaggio inaspettato, ma la cui aria appartiene ai territori di un panorama nordico di cui si percepisce l’eco dei suoi racconti angusti e misteriosi. (…) È cinema che conserva una parte di manualità, che non si abbandona alla semplice CGI, che desidera che le creature dei propri mondi irreali siano autentiche e in qualche modo tangibili. Isaiah Saxon riattiva il più antico sense of wonder, il senso di meraviglia, e ci costruisce sopra (ma anche sotto, dentro, attorno) il proprio film. Non ci sono troppe spiegazioni in The Legend of Ochi e, quelle che vengono date, non sono minimamente influenti. Nel film nessuno si fa vere domande e fin da subito anche lo spettatore sa che è inutile cercare di trovare regole che diano ordine logico a un mondo governato puramente dalla fantasia. L’importante è sapere che l’Ochi compagno di Yuri è vero. Lo è per la protagonista che sceglie di prendersene cura, rivedendo in quel cucciolo ferito qualcosa di se stessa; lo è per Maxim e la sua tribù, che ritiene la specie degli Ochi la causa di tutti i suoi mali. Lo è anche per il regista e gli spettatori, che assistono a un animatronic – proprio come il citato E.T. o il più recente Grogu di The Mandalorian – che interagisce dando forma, volume e verità alle creature, sebbene in un contenitore del tutto fittizio, in cui è immediato e meraviglioso tuffarsi.
L’uso di animatronics non è l’unica soluzione artigianale che The Legend of Ochi utilizza. I suoi matte paintings, pitture di sfondi, sono fratelli di quelli de Il mago di Oz di Ian Fleming, tecnica di cui ha usufruito per edificare la sua città di Smeraldo, come anche di Star Wars per la scena di Obi-Wan Kenobi con il raggio traente e i volatili sopra Bodega Bay per Gli Uccelli di Alfred Hitchcock.
La sostituzione di una tecnologia ad oggi così pervasiva e predominante nel cinema lascia spazio a qualcosa di estroso e concede allo spettatore di sentirsi calato nell’immaginazione dell’ideatore Saxon, di accompagnare da vicino Yuri nel suo percorso di allontanamento e ricerca della propria famiglia. Di essere totalmente in un mondo che è altro, che c’è e insieme è impossibile che esista, che è lontano dal cinema commerciale eppure parla di e a tutti. In fondo anche la protagonista finirà per riuscire a parlare la lingua incomprensibile degli Ochi e al pubblico sembrerà di saper fare altrettanto. Capire senza intermediazioni, è questo il potere della fantasia.
The Legend of Ochi è uno di quei film che può aprire gli occhi su un concetto non poi così ovvio: in un’epoca che scompone e analizza le storie, all’inseguimento di un nerdico rigore logico, il lavoro di Isaiah Saxon, già regista di video musicali anche per Björk, ci ricorda quanto in un’opera d’arte non solo la forma sia inscindibile dalla sostanza… ma possa costituire la vera e propria sostanza, in barba al raziocinio, costringendoci ad arrenderci alla manipolazione registica dei sensi. Non si spiega altrimenti perché, durante la visione di un fantasy per famiglie dalla trama così apparentemente scontata, abbiamo avuto la sensazione di guardare qualcosa di particolare e del tutto personale. Se ci si pensa, è un risultato persino superiore a quello di un’opera che magari cerca a tutti i costi un plot spiazzante. A Saxon, autore anche della sceneggiatura, sembra interessare relativamente. I temi sono evidenti e già raccontati tante altre volte, lo ammettiamo: c’è una creatura narrativamente simile a E.T. (ma nell’estetica più simile ai Gremlins), mentre un essere umano stabilisce con essa una familiarità speciale. C’è il valore simbolico di quest’alleanza, che dà alla società intera la speranza di guardare alle proprie dinamiche in modo diverso, meno pauroso, meno schiavo dei pregiudizi. C’è una famiglia spezzata da ricomporre, con una figlia che richiama ai loro ruoli le proprie figure genitoriali. C’è anche un personaggio di mezzo, il fratello Petro (Finn Wolfhard, che ha comunque poche scene), sospeso tra i due modi di vedere la realtà, senza il necessario coraggio. Se fate parte di un pubblico un minimo navigato, sarete in grado di prevedere quello che accade dalla prima all’ultima scena. Ma riuscirete a prevedere come accade?
Il lavoro sull’immagine, il suono, la recitazione e i dialoghi non è assolutamente scontato. Saxon e il suo direttore della fotografia Evan Prosofsky hanno utilizzato ottiche Baltar della Bausch and Lomb risalenti agli anni Trenta, generando un tessuto particolare dell’immagine: con l’uso di mascherini vecchio stile, alcuni dei quali dipinti dal regista stesso, si è ottenuta una stramba visione iperrealista difficile da descrivere a parole. Le musiche di David Longstreth dei Dirty Projectors, per i quali Saxon aveva realizzato video, sono volutamente “invadenti”, coprotagoniste di diverse sequenze: i flauti si rifanno alla tradizione musicale dei Carpazi e non rievocano quasi mai le consuetudini hollywoodiane alle quali siamo abituati. All’autore non interessano molto i dialoghi, per cui le poche parole scambiate tra i personaggi ci chiedono di adattare la mente alle loro ossessioni: è particolarmente evidente nel caso del Maxim di Willem Dafoe e della Dasha di Emily Watson, entrambi intensi e straniati, come il film stesso. Helena Zengel poi, una sorta di Greta Thunberg senza la ribalta pubblica, rinchiusa in un privato asfissiante, regredisce allo stato ferino per interagire con l’Ochi: esplode in una visceralità bizzarra, aiutata molto dalla decisione di realizzare le creature con pupazzi e animatroniche, invece che in CGI.
La collisione tra le consuetudini della fiaba edificante e la libertà di regia di Saxon, per montaggio e sguardo, danno vita a un’opera quanto meno interessante: non manca qualche momento vagamente disturbante o quasi gore, con un gusto del grottesco nel “cinema per tutti”, davvero cifra degli anni Ottanta. Ci è capitato di rado di vederlo recuperato con una tale convinzione e senza sottostare alla citazione più sterile. The Legend of Ochi ha il cuore ma non ha la carineria, stimola sempre la nostra attenzione e ci costringe a non liquidarlo facilmente, anche se trovassimo il plot scontato e non dovesse piacerci lo stile così marcato del suo regista. Una firma che a questo punto terremo d’occhio volentieri.