Cherien Dabis

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Le prime immagini ci portano in Cisgiordania nel 1988 con due amici adolescenti che si inseguono in strada. Il clima scherzoso cambia quando i ragazzi notano alcune persone raggrupparsi di fronte a un posto di blocco. Uno di loro si unisce alle proteste contro i militari al grido di Intifada (rivoluzione), la situazione precipita rapidamente e vengono sparati colpi di arma da fuoco.
Questo è il prologo di Tutto quello che resta di te, collocato al centro del lungo arco narrativo della storia che copre un tempo di oltre settantacinque anni. Il primo piano di un’anziana donna ci spiega che per capire chi sia suo figlio, dobbiamo conoscere la storia del nonno. È qui che inizia il racconto della saga di una famiglia palestinese, nel lontano 1948 quando fu messa in atto la Nakba, la pulizia etnica degli arabi palestinesi da parte dell’esercito israeliano attraverso l’espropriazione di terre, beni e proprietà e il forzato sfollamento.
Il volto di quella donna, coperto da un make-up per invecchiarla, appartiene a Cherien Dabis, regista, sceneggiatrice e protagonista femminile del film. Con queste responsabilità artistiche sulle spalle, Dabis cerca di dare una forma cinematografica a un trauma intergenerazionale assumendosi l’ulteriore carico di ritrarre una popolazione umiliata di fronte a un invasore armato.
La regista narra la storia di una famiglia per raccontarle tutte. Cherien Dabis realizza un film ambizioso, coraggioso e necessario, soprattutto per gli spettatori occidentali che ancora faticano a inquadrare la questione israelo-palestinese. Non si tratta di un film politico, ma un chiaro punto di vista c’è, quello di una popolazione che ha perso progressivamente libertà, diritti e aspirazioni. Con salti temporali dal 1948 al 1978 e dal 1988 a un momento più recente, la storia è più intima che epica nella sua ricerca di autenticità. Siamo invitati a diventare testimoni di una vita trascorsa in uno stato di occupazione permanente, dove rassegnazione e rivoluzione sono gli estremi di un pendolo che oscilla tra una generazione e l’altra. L’istinto di sopravvivenza può far abituare al dolore, ma il dolore può scatenare la rabbia repressa.
Tutto quello che resta di te riduce la complessità della situazione israelo-palestinese all’unica lingua comprensibile per tutti. Non l’arabo, né l’ebraico. Le emozioni parlano forte e chiaro e arrivano dritte al cuore di chi guarda. Un aranceto diventa il simbolo della perdita di identità e di cultura dei palestinesi e dell’inizio di una lunga prova di resilienza che si è ormai diluita nel sangue versato dalle atrocità commesse nel corso dei decenni fino ad oggi. Dabis ci permette di abitare insieme a Sharif, Salim, Hanan e Noor, di capirne l’evoluzione dei sentimenti, delle frustrazioni e del crescente e insopportabile senso di rivalsa. Il titolo del film si riferisce a questo, a quanto rimane di una famiglia, e di un popolo, dopo tutti i traumi vissuti. Ma è anche l’elaborazione del trauma di una madre e del destino di suo figlio.
(…) Di film riguardanti le ataviche vicende del Medio-Oriente ce ne sono a bizzeffe, eppure, dopo la rivoluzione gentile di Asghar Faradi che ha portato stili, toni e ritmi occidentali in un cinema lontanissimo da noi, questo tipo di film mi sembrano più a fuoco e, cosa non da poco, più comprensibili. E questo della Dabis mi sembra posso entrare di diritto tra i migliori del suo genere. Lontanissimo da un certo documentarismo (e da una certa sonnolenza di ritmo) che ammantava l’opera di Amos Gitai o Jafar Panahi (ne cito due a caso, i due più importanti), quest’opera pare un film americano, nello stile e nei modi, “accidentalmente” ambientato in Palestina, in cui non si avverte né la fatica di una trama che si snoda dal 1948 al 2022 né i 145′ di durata.
E’, in soldoni, una lunga e quasi epica saga familiare, che parte dalla prima occupazione israeliana a Jaffa nel 1948, e dunque le vicende di una famiglia palestinese a cui viene portata via con la forza la casa e la terra dove sorge l’aranceto di famiglia; la deportazione del padre e il suo successivo ritorno in famiglia, dopo la fuga in un altra città della propria famiglia; piombiamo nel 1978, con la Cisgiordania occupata, il figlio cresciuto e diventato a sua volta padre (professione: maestro elementare), la difficile convivenza col genitore divenuto anziano e (apparentemente) perso nella memoria e nei pensieri e l’esercito israeliano che, al solito, controlla le strade del paese in modo violento e sadico (la sequenza in cui viene puntato il fucile verso il padre con figlioletto al seguito con l’intento non di ammazzarlo, bensì di umiliarlo davanti al pargolo spaventat è da cuore in gola: siete avvisati); nel 1988 il figlio del protagonista cresce, ha vent’anni, odia gli israeliani e partecipa, quasi casualmente, ad una manifestazione a favore del popolo palestinese, qui viene colpito da un proiettile, finisce in coma e muore. Qui inizia tutto un secondo film, che tocca temi morali altissimi, quale, su tutti, quello della donazione degli organi che potrebbero, inevitabilmente, finire per far vivere qualche bambino ebreo. E ciò accade. Eccoci quindi ai giorni nostri, nel 2022, con la madre del ragazzo ucciso intenta a parlare con Ari, un uomo che tempo prima avevano visto bambino e che ora vive, da ebreo, con il cuore di un palestinese. Finale amarissimo, e poetico al tempo stesso.
Inizialmente pensato per essere girato sui luoghi reali, causa avvenimenti di Gaza, è stato girato tra Cipro, Giordania e Grecia. La Dabis racconta una lunga saga familiare sullo sfondo delle ripetute, e sempre più violente, occupazioni israeliane su suolo palestinese, ma lo fa con un tono da cinema occidentale capace di infondere al film un ritmo martellante dall’inizio alla fine, persino laddove, nel finale, inevitabilmente il film rallenta l’azione per dedicarsi ai temi più alti, e dunque più corposi, dell’intera opera. Alcune sequenze sono da antologia, oltre alla suddetta citata sequenza ci sarebbe da ricordare anche la lunga scena in cui ai genitori vengono richiesti un’infinità di moduli per poter effettuare una TAC al figlio appena trasportato in ospedale. Va detto però. che a sorprendere sono soprattutto i due toni che il film assume nella sua (lunga durata): le vicende del 1948 sono tragiche ma posseggono una verità storica che le rende (quasi) filologiche; le vicende del 1978 sono venate, addirittura, da una vena umoristica affidata al capofamiglia, qui già nonno, che per tentare di esorcizzare la prigionia subita in gioventù istruisce il nipote sulla grandezza della Palestina (e sui “maledetti figli di puttana” che la occupano) stemperando ogni situazione con una battuta, un motto sarcastico; gli accadimenti del 1988 sono tragici e non c’è possibilità di sorriso, il groppo in gola soprende lo spettatore e lo costringe ad una realtà che vorremmo dimenticare; il 2022 è poetico, è l’epoca della vecchiaia, con i due protagonisti settantenni che ritornano a Jaffa, la trovano cambiata, rivedono la vecchia del casa di lui e, come in un film chapliniano, si avviano (e soprattutto si avviano le loro ombre) verso il mare, e una poesia, che durante il film viene recitata spesso, ricorda la grandezza della propria terra. Eppure la regista, nonostante accusi l’occupazione israeliana, non addita a colpevoli gli israeliani di oggi, a cui nel finale ricorda che il loro dolore (la Shoah) è anche il loro dolore, ma che forse, in alcuni casi, tale sentimento non pare ambivalente. (…)
