Ivano De Matteo

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Sofia è un’adolescente che ha perso la madre e mal sopporta la nuova compagna di suo padre Pietro. Una sera i conflitti tra le due, innescati puntualmente dall’insofferenza di Sofia, sfociano nell’irreparabile. Quando Sofia verrà arrestata inizierà un lungo percorso, e suo padre Pietro si ritroverà a dover mettere in pratica valori come comprensione e accettazione, ma il perdono non è scontato.
Un film doloroso, che mira ad approfondire senza mai giudicare. È Una figlia di Ivano De Matteo, regista che ci ha abituati da sempre a opere che sospendono ogni giudizio e affrontano tematiche complesse, difficili, spesso dure. Non sono film che si dimenticano facilmente, i suoi. Non sono facili da digerire, ed è un complimento: a fronte di un certo cinema nostrano superficiale e patinato, il suo è ancora un cinema che va a fondo, ancorato e attento alla realtà, alle sue sfumature e alle sue contraddizioni. Un cinema non rassicurante e per questo interessante, capace di intercettare certe espressioni di malessere sociale e raccontarle senza fronzoli e senza retorica. Questa volta, ispirandosi liberamente al libro Qualunque cosa accada di Ciro Noja, sceglie di riflettere su un dramma che si consuma tra le pareti domestiche e torna, dopo Mia, a indagare insieme alla cosceneggiatrice Valentina Ferlan il complesso rapporto tra un padre e una figlia. Ma se lì c’era una ragazza-vittima da tentare di proteggere, qui c’è una figlia carnefice. L’omicidio si consuma nelle prime scene, il film non è un giallo alla ricerca del colpevole, è tutto chiarissimo sin dall’inizio. Come nella miniserie del momento Adolescence anche qui c’è un’adolescente colpevole di un reato gravissimo al centro della scena e un padre con in mano una miriade di frantumi emotivi da ricomporre.
De Matteo ben descrive cosa succede alla ragazza, dall’arresto in poi, guardandosi bene dall’edulcorazione a cui alcuni prodotti di successo – come la serie Mare Fuori – hanno abituato lo sguardo del pubblico italiano. Racconta quello che è lo slittamento in un altro mondo, quello carcerario, realtà eufemisticamente dura per una minorenne che fatica ad accettare di dover lasciare le sicurezze della vita precedente. Al disagio esistenziale della figlia, restituito da una Ginevra Francesconi assolutamente convincente, generosa e ben diretta, risponde quello di suo padre Stefano Accorsi, qui nel ruolo drammatico, a tratti straziante, di un padre due volte vedovo che non sa cosa fare, come bilanciare rabbia, dolore e istinto paterno, come accettare una circostanza inaccettabile. Una moglie venuta a mancare, una nuova compagna (Thony, sempre brava) uccisa e una figlia in carcere. L’unico barlume di luce è rappresentato dalla sua amica avvocata, interpretata da una Michela Cescon che non delude mai.
La regia non prende le parti di nessuno, non mira a riabilitare né esaltare la figura dell’adolescente carnefice, prova solo a fare un passo indietro e mostrare cosa accade. Tra le tante riflessioni del film ne emerge, specie sul finale, una: «Un genitore non può mai smettere di essere un genitore, qualunque cosa accada». Quel ‘qualunque cosa’ fa la differenza, specie se mentre un genitore rimette in discussione tutte le proprie convinzioni una figlia riesce a fatica a ricostruirsi una vita, che deve essere necessariamente nuova, lontana dall’etichetta di “mostro” che con facilità applicano i social e una società sempre più attenta più al sensazionalismo che allo spessore umano.
(…) L’uomo si troverà davanti a un bivio: abbandonare la figlia al suo destino o perdonarla? Una figlia è un film sul “dopo”, su quello che avviene come conseguenza di un gesto che non permette di tornare indietro. E riflette su una questione senza tempo eppure estremamente attuale legata all’essere genitori e all’educazione data ai figli. Cosa succede, si domanda e ci domanda Ivano De Matteo, se un figlio non segue l’esempio dato tra le mura di casa? Se sbaglia e svela di non essere come lo si credeva? Può il sentimento di una madre o di un padre cambiare nei confronti di chi hanno messo al mondo?
Muovendosi in punta di piedi, De Matteo ci restituisce una storia complessa fatta di sentimenti contrastanti – rabbia, sensi di colpa, incredulità, rifiuto – mentre segue Sofia e il suo nuovo presente di cui è lei stessa artefice. Non c’è giudizio nello sguardo del regista, ma la volontà di raccontare le emozioni di chi sbaglia, andare oltre l’etichetta di “carnefice” e indagare cosa succede nella mente e nel cuore di una ragazzina che ha compiuto un atto terribile distruggendo più di una vita.
Per farlo si affida alla bravura dei suoi due protagonisti, Stefano Accorsi e Ginevra Francesconi. Intensi quanto misurati nell’interpretare gli abissi in cui sprofondano Pietro e Sofia e le varie tappe del loro rapporto. Quando la ragazza varca le porte del carcere – mentre fuori parte un processo mediatico parallelo a quello delle aule di tribunale – De Matteo ci porta al suo fianco. Dal rapporto prima conflittuale e poi confidenziale con le altre giovani detenute, ai vari stati emotivi che attraversa fino ad una scoperta che, oltre a sconvolgerla, le permette di immaginare un futuro. Importante anche il lavoro fatto sul suono per evidenziare la nuova dimensione in cui si ritrova la ragazza.
Un dramma dal forte impatto emotivo che il regista riesce a gestire mantenendo sempre un rigore narrativo che non scade mai nell’eccesso. Una scelta che rende ancor più forti le immagini che si susseguono sullo schermo. Basta un accenno di abbraccio, delle lacrime trattenute a fatica, una foto appesa a testimoniare un passato felice o delle mezze parole pronunciate sottovoce per restituire tutto quello che provano i personaggi e farlo arrivare dritto fino a noi. Quello che racconta Una figlia è una storia che potrebbe capitare a chiunque e De Matteo, nel cambiare il punto di vista, ci sprona a guardare le cose da un’altra angolazione e con un altro stato emotivo.
Roma è una città che, si sa, ha una stratificazione topografica varia come quella di una regione. All’interno dello stesso municipio basta scavallare un ponte, un isolato, anche solo una strada e cambia tutto. Via Pietro Frattini e via Luigi Magrini fanno parte, ad esempio, dello stesso quartiere, Ostiense in questo caso, eppure hanno microcosmi sociali diversi, quasi speculari. Dopo aver raccontato l’amore tossico di Mia ambientando il film nella parte più popolare dell’undicesimo municipio della capitale, ecco che De Matteo – anche questa volta insieme alla sceneggiatrice e compagna di vita Valentina Ferlan – sceglie di spostarsi di pochi chilometri per una delle operazioni più interessanti compiute singolarmente da un autore del cinema italiano nel recente passato. Una figlia entra nella villetta borghese – con domestica filippina annessa e agenzia immobiliare di proprietà sita nel centralissimo Corso Vittorio Emanuele – di Pietro, della compagna Chiara e della figlia dell’uomo, la diciassettenne Sofia. La convivenza tra i tre membri della famiglia è problematica per la tensione che l’adolescente prova nei confronti della donna che, a suo modo di vedere, si è intromessa in casa prendendo il posto dell’amata madre, morta cinque anni prima per malattia. Al regista romano, in questo senso, basta una sola scena, la prima, per creare una tensione interna destinata inevitabilmente a crescere. Poco prima dei titoli di testa la ragazza infatti, insonne per gli incubi provocati dal lutto non superato, si sveglia nel cuore della notte e, vagando per casa, sente il genitore e la compagna insieme.
Una figlia ci mette quindi poco a suggerire la lesione psicologica e caratteriale che sussiste tra Sofi e Chiara, badando però con accortezza a non sovraccaricare il conflitto. Ecco che quando una sera come tante le due si scontrano nella cucina, la coltellata inferta dalla ragazza alla donna arriva anche nel cuore dello spettatore, chiamato adesso a reagire nonostante la (voluta) poca emotività prodotta dal lungometraggio. Il ritmo di Una figlia, rispetto al più partecipato Mia che mostrava l’inabissamento della protagonista nella relazione tossica col suo fidanzato, è difatti più asettico, quasi documentaristico nelle evoluzioni del rapporto che il padre ha nei confronti di una figlia che col suo atto omicidiario sembra averlo voluto punire per aver trovato la felicità (“Quello che lei ha fatto l’ha fatto a me“). L’alternanza tra il percorso compiuto dalla giovane e il cammino espiativo fatto dall’uomo viene sempre condotta a bassi decibel empatici, senza picchi di coatto ed esibito moralismo in una storia che poteva facilmente rischiare il pietismo o il suo opposto, l’eccitabilità popolana e populistica (i brevi accenni alla, purtroppo scontata, mediatizzazione true crime).
Meno epidermico e più cerebrale rispetto al suo predecessore, Una figlia riesce però a insinuarsi con inquietudine irritante sottopelle, postulando inoltre in maniera chiara e mai compromissoria l’idea che la risposta alle tragedie personali sia anche e soprattutto questione di ceto sociale. Il suicidio di una quindicenne di una casa popolare e l’omicidio perpetrato da una cavallerizza diciassettenne dell’Ostiense bene esigono quindi due film diversi. Che il secondo sia meno accessibile ma più complesso è un ulteriore nota antropologica di merito sullo sguardo sofferto e mai giudicante di De Matteo.