Mehdi Barsaoui

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Aya sceglie di morire per potersi reinventare e rinascere. Non si tratta di suicidio, bensì di un atto radicale: obliterare la sé anteriore per incarnarne un’altra, a costo di sprofondare nell’invisibilità. “Una sconosciuta a Tunisi” germina da questa decisione inaudita, così straordinaria da assumere i tratti di mito: una giovane donna del sud tunisino, priva di prospettive, segnata dalla monotonia dei legami e dall’oppressione sociale, si lascia travolgere da un incidente che avrebbe dovuto annientarla e che invece diventa occasione di rinascita. Così finge la propria morte e approda a Tunisi, città che, nel suo brulichio disordinato, si offre al contempo come rifugio e minaccia, promessa e illusione, teatro di una libertà fragile e costantemente insidiata.
La città stessa si configura come un terzo protagonista, con i suoi vicoli stretti e irregolari, il frastuono dei mercati popolati di venditori e acquirenti, il lamento delle auto che arrancano sotto i lampioni gialli, gli autobus cigolanti che percorrono le numerose strade dissestate: tutti elementi vivi che respirano accanto ad Aya. I cortili nascosti, le facciate scrostate, le finestre da cui filtrano luci intermittenti diventano un labirinto di osservazione e pericolo, un paesaggio che misura la sua autonomia, accompagna i suoi passi e giudica ogni gesto di resistenza. Tunisi non è mai neutrale: offre rifugio e allo stesso tempo ricorda, attraverso ogni rumore, ogni odore, ogni chiaroscuro, quanto fragile sia l’anonimato di chi osa inventarsi un’esistenza fuori dai confini prescritti.
Non è una storia di fuga ordinaria. Aya non scappa da un carnefice manifesto, ma da un’intera tessitura di imposizioni: la famiglia che la vorrebbe moglie devota, la comunità che la riconosce soltanto come corpo da sorvegliare, un destino già scritto che non le appartiene. Fingere la morte diviene un gesto politico, un atto di sottrazione radicale: rifiutare il nome ereditato, sottrarsi alla narrazione che la vorrebbe trasparente, reinventarsi clandestina nella propria vita. Eppure, questo anonimato, che parrebbe conquista, si tramuta rapidamente in precarietà costante: impieghi effimeri, relazioni pericolose, esistenze ai margini della legalità.
La libertà si manifesta come un privilegio conquistato a caro prezzo, un privilegio che il mondo circostante tollera a malapena.
Il cuore della vicenda si apre con l’episodio che cristallizza la dimensione politica della scelta di Aya. Assistendo a un abuso di potere perpetrato dalla polizia, si trova immersa in una rete di violenza istituzionale che non può ignorare. La paura le scorre nelle vene come un gelido fiume, le mani tremano, la pelle si accende sotto il sole implacabile e la tensione del corpo diventa linguaggio silenzioso. Oscillare tra il desiderio di preservare la propria “nuova” vita e il bisogno di testimoniare si trasforma in una scelta morale, fisica e politica insieme. In quel momento, il gesto individuale si fonde con il collettivo: la vicenda privata diviene specchio di una realtà sociale più ampia, in cui la Tunisia post-rivoluzionaria proclama modernità e libertà, pur restando intrappolata in una mentalità patriarcale, nella corruzione e nelle imposizioni ancestrali.
Aya porta inscritto sul corpo un duplice conflitto: da una parte la pressione della tradizione, che riduce la sua carne a funzione domestica e materna; dall’altra, la violenza di una modernità che le promette emancipazione e invece la relega nell’invisibilità: lavori precari, rapporti senza orizzonte, un continuo baratto tra dignità e sopravvivenza. Il suo corpo è al contempo strumento di fuga e luogo di vulnerabilità: pelle, muscoli tesi, gesti cauti, passi pesanti sulle strade dissestate, diventano metafora di resistenza e fragilità. Nel gesto primigenio di obliterarsi per rinascere, riecheggia un ardore prometeico, immediatamente smorzato dalla realtà: il mondo non concede vera rinascita, al massimo tollera chi si muove come ombra. Eppure, Aya persiste, fragile e ostinata, oscillando tra timore e desiderio, incarnando l’ipotetica possibilità di un’esistenza altra, sospesa tra invisibilità e diritto di affermarsi. Diviene così Aïcha, figura sfuggente che tenta di reclamare il mondo attraverso gesti minuti, quotidiani, eppure rivoluzionari: aprire una porta senza permesso, scegliere la propria stanza, muovere lo sguardo senza deferenza, alzare la voce.
Barsaoui narra tutto questo con una regia misurata e pudica, che indugia sui dettagli fisici e sonori della vita di Aïcha: il sudore che imperla la pelle, il fruscio delle lenzuola, i passi tra le vie tortuose della città, lo sguardo che scivola, il silenzio che pesa più di mille parole. Ogni inquadratura diventa poesia del quotidiano, misura della precarietà, canto silenzioso della resistenza. Momenti emblematici – come lo sguardo a un muro di fotografie di donne scomparse o la scelta di restare immobile durante un corteo – trasformano gesti minimi in dichiarazioni di libertà e presenza, atti politici incarnati nel corpo.
Il parallelo tra individuo e collettivo emerge nella tensione costante tra la storia privata di Aya e la condizione femminile tunisina: ogni passo della protagonista, ogni gesto di autonomia e cautela, diventa microcosmo di un’esperienza condivisa, specchio silenzioso di donne che abitano gli stessi spazi, affrontano le stesse imposizioni, trattano la stessa precarietà. Il suo corpo è cartografia vivente di resistenze quotidiane: le mani che tremano, i muscoli tesi, la pelle percorsa dal sudore sotto il sole di Tunisi non parlano solo di paura individuale, ma di una dignità collettiva che si misura nelle impercettibili deviazioni dai ruoli prescritti. Il gesto singolo acquista peso universale quando diventa simbolo di ciò che la società nega o tenta di cancellare. La fragilità della sua libertà diventa metafora della condizione di una generazione di donne sospese. Non c’è catarsi, non c’è trionfo spettacolare: Aya resta “sconosciuta”, cammina tra le ombre della città; eppure, lascia dietro di sé una traccia di resistenza, presenza fragile ma potente, testimonianza che la libertà femminile non è concessa, ma tessuta con gesti quotidiani, conquistata passo dopo passo, respiro dopo respiro, corpo dopo corpo.
Eppure, se si volesse misurare il senso profondo di “Una sconosciuta a Tunisi”, non basterebbero definizioni generiche o morali universali. Il film serve a farci sentire, nella carne e nello sguardo, cosa significhi abitare la precarietà della propria libertà. Ci dice che cancellarsi può essere un gesto di affermazione e che l’invisibilità non è rinuncia ma resistenza. Impariamo che il corpo è memoria, politica, custodia di desideri e timori: ogni passo sulle strade dissestate di Tunisi, ogni mano che si ritrae o si allunga, ogni sguardo che fugge e ritorna, parla di una dignità conquistata nell’ombra. E in questa danza sottile tra fuga e presenza, tra anonimato e testimonianza, emerge un messaggio più universale: vivere significa spesso sottrarsi ai ruoli che ci vengono imposti, reinventarsi tra ciò che la società permette e ciò che la coscienza reclama, trovare nei dettagli, nei silenzi, nei piccoli corpi di gesti, la misura di una libertà conquistata con pazienza, coraggio e ostinazione. Alla fine, ciò che ci viene restituito non è una lezione morale, ma l’esperienza sensibile di un’esistenza che si afferma a fatica: ci insegna che la vita autentica si misura nelle resistenze, negli attimi in cui si sceglie di non cedere all’invisibilità imposta, e che la libertà, quando è conquistata così, diventa palpabile, concreta, eppure fragile come il passo leggero di una donna che cammina tra le ombre di una città che la osserva.
