The Fabelmans

Steven Spielberg

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Toronto International Film Festival 2022, premio People's Choice

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The Fabelmans è una storia semi-autobiografica, basata sull'infanzia e l'adolescenza del regista e in particolare si ispira al periodo trascorso in Arizona. Il film racconta la storia di Sammy Fabelman, un ragazzo cresciuto tra l'Arizona e la California tra gli anni 50 e 60, che grazie all'amore di sua madre per la musica e il cinema, si appassiona anche lui alla settima arte. Il giovane scopre uno sconvolgete segreto familiare e si rifugia nella magia del cinema, che con il suo potere salvifico può aiutarlo a vedere la verità...
DATI TECNICI
Regia
Steven Spielberg
Interpreti
Gabriel LaBelle, Michelle Williams, Paul Dano, Seth Rogen, Jeannie Berlin, Keeley Karsten, Robin Bartlett, Oakes Fegley, Julia Butters, Gabriel Bateman, Judd Hirsch, Nicolas Cantu, Sam Rechner, Chloe East, Isabelle Kusman, David Lynch
Durata
151min
Genere
Biografico
Drammatico
Sceneggiatura
Tony Kushner, Steven Spielberg
Fotografia
Janusz Kaminski
Distribuzione
01 Distribution
Nazionalità
USA
Anno
2022

Presentazione e critica

The Fabelmans è tutto quello che è il cinema: è esorcismo (di una triste storia di divorzio e sofferenza), è fascinazione (per il racconto), è emozione, dramma e commedia, racconto di formazione. E è sicuramente, sarebbe sciocco e ingenuo non considerarlo, manipolazione: nessuno di noi potrà mai sapere se e quanto Spielberg abbia abbellito, imbruttito, modificato, censurato o esaltato la realtà dei fatti. Ma io, francamente, me ne infischio, e ve ne dovreste infischiare anche voi. Perché questo è cinema, la verità andatevela a cercare altrove…

Cinefilo è cinefilo, The Fabelmans, ma non è mai inutilmente feticista, né assomiglia ad altri film sul cinema. Nostalgico, forse, ma mai chiuso nel solipsistico rimpianto di un tempo che fu. Nemmeno sul fronte autobiografico, finalmente declinato secondo traiettorie diverse da quelle cui il cinema più recente ha abituato. Poi certo, che Sam sia Steven ce lo ricorda lo stesso regista, di continuo, specie nella scelta di un attore, Gabriel LaBelle, il Sam più “adulto” dei tre che vediamo sullo schermo, che di Spielberg è chiaramente più un sosia che un avatar. Ma Steven non è ripiegato dentro Sam, e Sam si apre per accogliere la proiezione di ogni spettatore. È, anche, THE FABELMANS, il film (volutamente) forse meno compatto, il più frastagliato e il più ondivago, tra tutti quelli diretti da Spielberg in carriera, che pure gli stanno tutti dentro in immagini, figure e personaggi.
Un film sempre soggetto a sbalzi di tono, di umore, di situazioni. A cambi di fuoco repentini. Ma questo lo rende più umano, se vogliamo, mentre la capacità di Spielberg di flirtare con questa indeterminatezza senza mai perdere, nemmeno per un istante, il controllo totale sulla sua arte, quello ha del superumano.
Basta pensare a quando Spielberg, nel momento in cui i suoi genitori, i genitori si Sam, annunciano ai figli la decisione di divorziare, ed è tutto un continuo e isterico passare da un primo all’altro, e un tutto un traboccare di sentimento, inserisca un’inquadratura quasi subliminale in cui Sam si vede, si immagina, in uno specchio mentre filma quella scena. Razionalità e sentimento. Scienza e arte. Distanza e partecipazione. Padre e madre. Queste sono le dicotomie (la dicotomia) alla base di questo film. Per questo, qui, ci si commuove meno che in altri film di questo maestro. Per Spielberg era fondamentale tenere l’equilibrio. La barra al centro.

Forse, però, la cosa più bella di tutte arriva sorprendentemente alla fine. In un finale rischioso, che potrebbe essere scambiato per sfacciato, o perfino macchiettistico, a rischio figurina, nella sua testarda voglia di mettere a confronto il giovane Sam con la leggenda John Ford (interpretato da un altro regista, a pensarci straordinariamente somigliante, ma davvero inatteso: il nome non lo dico per non rovinare la sorpresa), ma che non lo è affatto. Al contrario.
La cosa più bella di tutte, dicevo, è che al termine di questa sarabanda di situazioni e sentimenti, che tirano in ballo il personale di Spielberg, e la memoria degli spettatori, e l’amore per il cinema, e per la vita, Spielberg stesso decida di chiudere ricordando che il cinema può – deve anzi – essere una cosa semplice. Un gioco, per divertirsi e divertire. È semplice: orizzonte alto o orizzonte basso. Mai in mezzo. Un aggiustamento della macchina da presa. Nero. Fine. Applausi.

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La favolosa sequenza di apertura di The Fabelmans pone la prima pietra: davanti al grande schermo gli occhi del piccolo protagonista si spalancano di spavento e di meraviglia per l’incredibile scena di un treno che percuote in piena corsa una vettura sui binari. L’ossessione di quella scena non lo lascerà più e non smetterà di riprodurla in miniatura con la sua prima cinepresa. Comincia da qui The Fabelmans, puramente spielberghiano e radicalmente intimo. Un film ad alto potere emozionale e ricco di ellissi che ‘colmano’ una mancanza e ricostruiscono quell’infanzia che il regista non ha mai smesso di reinventare nei suoi film.
È una lettera d’amore di Spielberg ai suoi genitori, The Fabelmans a sua madre in particolare, a cui il film è dedicato. L’autore è nel pieno possesso delle sue capacità, sereno e finalmente pronto a girare ‘il suo’ racconto elegiaco e solare, attraversato da una felice malinconia. Spielberg è dappertutto, nella narrazione che scrive a quattro mani con Tony Kushner (Munich, Lincoln, West Side Story), e nella forma, meno (apparentemente) spettacolare e sensibilmente personale.

Il padre di Indiana Jones firma un’autobiografia romanzata, un’introspezione, un dizionario enciclopedico dei temi e dei motivi che coltiva da più di mezzo secolo: i volti meravigliati dei bambini, occhi spalancati e bocche socchiuse, i dialoghi scritti come massime (“Non basta amare una cosa, bisogna sapere prendersene cura…”), la perdita del conforto domestico come trauma irrimediabile, il confronto dei mingherlini di genio coi bellimbusti idioti e quell’incredibile senso visivo che gli permette di inventare immagini folgoranti. Una su tutte: le mani di un bambino che si fanno schermo per accogliere delicatamente un frame tremante, come un pulcino estratto dal suo guscio.

Spielberg è tutto lì, ‘in un pugno’ e in un film che affronta per la prima volta in maniera esplicita la sua infanzia. Niente alieni a deviare il racconto. Il regista esplora soprattutto le zone d’ombra perché sotto la gioia di vivere dei ‘favolosi Fabelmans’, come avrebbe titolato Orson Welles, si nascondono segreti e ferite.

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Con il suo ultimo The Fabelmans, Spielberg ci regala un film che riduce tale lente a uno strato sottilissimo, mettendo in scena gli anni della sua giovinezza e gli eventi che lo hanno condotto all’amore per la Settima Arte.
Lo scopo principale appare senza dubbio quello di fare i conti con i fatti che hanno minato l’unità familiare nella sua adolescenza, indirizzandolo verso il cinema come momento di evasione dal dolore del quotidiano ma anche come mezzo per esprimere quel dolore stesso, incanalandolo in una storia capace di parlare al grande pubblico. E Steven Spielberg, ovvero uno dei più grandi narratori per immagini dei nostri tempi – se non il più grande – con The Fabelmans fa ancora una volta proprio questo: sviluppa una storia di crescita e accettazione che rimane comunque finzione, ovvero quella finzione quella che lui stesso avrebbe voluto vivere.
(…) Anche se in superficie il personaggio portante della trama è Mitzi, la madre del giovane protagonista Sam, nel profondo The Fabelmans è un atto d’amore verso la figura paterna di Burt, una figura che nel cinema si Spielberg è stata costantemente motivo di frustrazione. Spielberg celebra la resilienza, l’abnegazione, la devozione incondizionata di un uomo destinato ad amare una donna a cui sta troppo stretta la vita che lui può offrirle. Sotto questo punto di vista The Fabelmans si conferma, alla maniera di molti film del primo Spielberg, una favola che reinterpreta la realtà. O meglio l’espressione di un desiderio preciso, quello di aver avuto la possibilità di capire meglio i propri genitori.
In certi momenti sembra quasi che il cineasta voglia spiegarci perché negli anni ‘70 e ‘80 faceva film in quel modo, e questo introduce un certo didascalismo nella narrazione e nell’estetica scelta per The Fabelmans. Al tempo stesso però troviamo nel film sequenze che parlano di cinema in maniera talmente precisa e profonda da colpire dritte al cuore: Spielberg ci mostra ad esempio con straordinaria semplicità ed efficacia che fare cinema ha significato per lui tentare di prendere il controllo della propria vita, oppure che si possono usare le immagini quando le parole diventano troppo pesanti o dolorose per poter essere pronunciate. Questi sono i momenti più belli di The Fabelmans, opera che possiede anche momenti di incredibile e insieme dolorosa leggerezza, alla maniera di quel John Hughes a cui Spielberg strizza più volte l’occhio in questo lungometraggio. E a chiudere un’operazione tanto complessa e stratificata proprio perché estremamente personale, ci sono gli ultimi dieci minuti che sono qualcosa che è difficile definire, tante sono le emozioni che racchiude: una sequenza cinefila, spassosa, geniale anche nella scelta di un cameo straordinariamente assurdo eppure perfetto che ovviamente non vi spoileriamo. (…)

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