A passo d’uomo

Denis Imbert

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Pierre è un noto scrittore appassionato di viaggi avventurosi ma dalla vita dissoluta e dipendente dall’alcol. Una sera in cui beve più del solito, si cimenta nell’arrampicata della facciata di un albergo ma perde l’equilibrio e precipita finendo in coma. Quando si risveglia nel suo letto di ospedale, promette a se stesso che appena riuscirà a reggersi in piedi partirà per il viaggio della sua vita. Infatti, contro il parere di tutti, Pierre deciderà di percorrere a piedi la Francia, dal parco del Mercantour, nel sud est, fino alle falesie del Jobourg nel Cotentin, all'estremo ovest della Normandia, attraversando in diagonale l'intero paese, e prendendo solo piccoli sentieri. Un viaggio che gli farà scoprire il lato più rurale del Paese e che gli permetterà di rinascere facendo pace con il suo passato.
DATI TECNICI
Regia
Denis Imbert
Interpreti
Jean Dujardin, Anny Duperey, Izïa Higelin, Josephine Japy, Dylan Robert, Jonathan Zaccaï, Olivier Charasson, Lou Chauvain, Marie-Christine Barrault, Yves Servière, David Faure, Thomas Goisque
Durata
94 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Denis Imbert, Diastème
Fotografia
Magali Silvestre de Sacy
Montaggio
William Goldenberg
Distribuzione
Wanted Cinema
Nazionalità
Francia
Anno
2022

Presentazione e critica

Pierre è uno scrittore che nei suoi libri ha descritto spesso considerazioni sui suoi viaggi. Una grave caduta lo blocca a lungo in un letto d’ospedale da cui si ripromette, qualora ne uscisse ancora in grado di deambulare, di compiere un’impresa. Intende camminare per circa 1300 chilometri attraversando la Francia percorrendo vie e sentieri poco o per nulla praticati.
Jean Dujardin fa propri gli abiti e le riflessioni di Sylvain Tesson, già noto al pubblico italiano. Chi, anche se non ne ha letto i libri, ha visto La pantera delle nevi conosce infatti Tesson per averlo visto, in compagnia del co-regista e fotografo naturalista Vincent Munier riflettere e osservare con rispetto l’ambiente naturale a 5000 metri d’altezza sull’altopiano tibetano in inverno. Già in quel documentario si poteva notare come la parola, scritta e detta, fosse affidata a lui che elaborava un diario di quell’esperienza. Anche in questo caso sono le riflessioni a costruire il percorso narrativo del film. Il quale, va riconosciuto quando accade perché non è così consueto, ha un titolo italiano che è decisamente più significativo e soprattutto efficace di quello originale. Se Sur le Chemins Noir si limitava ad offrire un’informazione logistica (per i francesi che sanno a cosa si fa riferimento), quello italiano coglie l’essenza dell’esperienza.
Perché è proprio l’uomo che Pierre (alter ego di Sylvain) sta cercando di ritrovare in questo percorso ‘folle’ che qualsiasi medico gli sconsiglierebbe. Sta cercando quell’uomo che si era nascosto dietro l’immagine dello scrittore di successo e dotato di fascino, capace di sedurre una giovane donna con una sola frase ma, al contempo, incapace di non affogare nell’alcol tensioni interiori originate nell’infanzia. Con 20 fratture distribuite in varie parti del corpo in seguito a una bravata realizzata dopo una serata alcolica, bloccato per due mesi in un letto, Tesson si è detto, come afferma in un’intervista “Come ho potuto buttare via il mio tempo? Non devo dimenticare che ci sono il sole e il vento. Non devo dimenticare di vivere”. Ecco allora che Denis Imbert trova in Jean Dujardin l’interprete giusto per fare proprio da tutti i punti di vista questo bisogno che cerca una concretizzazione.
L’attore francese dimostra ancora una volta il proprio consapevole eclettismo consegnandoci un essere umano in cammino che, tappa dopo tappa (ognuna delle quali definite da una sovrascritta), mentre procede con passi a volte stentati e con dolori che si riacutizzano per poi comunque venir dominati dalla volontà, compie anche un percorso nel passato. Rivede infatti il se stesso di prima scoprendone anche i lati meno piacevoli mentre intanto compie incontri ognuno dei quali gli lascia una sensazione in più. Se la giovane donna in un alpeggio disposta ad ospitarlo gli fa pensare per un attimo (si tratta di uno sguardo) di poter essere ancora un seduttore, un monaco, mostrandogli una scultura in pietra, gli trasmette l’idea che materia e spiritualità non debbono essere necessariamente considerate in contrasto. Viene così evidenziato il fil rouge del film: un corpo segnato dal dolore che cerca le ragioni profonde dell’esistere attraverso un contatto con la Natura che la cosiddetta ‘civiltà’ sta rendendo sempre meno presente.

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Uno sguardo verso l’alto, il cielo che si mescola con gli alberi. È interessante vedere come due film appena “usciti” inizino allo stesso modo: Evil Does Not Exist di Ryūsuke Hamaguchi e A passo d’uomo di Denis Imbert, tratto dall’autobiografia di Sylvain Tesson. Il primo (bellissimo, premiato alla Mostra di Venezia) si apre con un lungo carrello, una soggettiva di un guardiano della foresta, pronto a difendere il suo spazio dall’invasione di un intruso. Il secondo ha un forte spirito ecologista. Segue le orme di Thoreau, del suo vivere lontano dalla città. Si parla della rinascita che avviene attraverso il cammino, i lunghi sentieri che si snodano nella parte più selvaggia della Francia.
(…) È un flusso di coscienza, con la voce fuoricampo che scava nell’identità di Pierre. Lo scontro è tra sogno e dinamiche quotidiane, razionalità e illusione. Pierre è tormentato, è un talento fuori dal comune con la penna, ma anche quando si tratta di bere. Si deve riprendere da una brutta caduta, ma deve anche capire quale direzione dare alla sua vita. Pochi dialoghi, tanta marcia: sono queste le regole di una storia in cui, come sempre, il viaggio si sviluppa sia all’esterno che nel cuore di Pierre. A passo d’uomo è diviso in tappe, che sembrano dei brevi episodi. A ogni chilometro arriva una nuova consapevolezza. La fatica si mescola alla redenzione.
“A metà strada tra il desiderio e il rimpianto, c’è un punto chiamato presente; bisognerebbe allenarsi a stare proprio lì, in equilibrio, come i giocolieri”, scrive Tesson in Nelle foreste siberiane. Forse è proprio questo il significato di A passo d’uomo: catturare il presente, con tutte le sue insidie. L’unica soluzione che viene proposta dal regista Imbert è di lavorare sul qui e ora. I flashback dedicati al passato rappresentano occasioni perse, amori falliti. Il domani è troppo fumoso per essere individuato. Resta il presente: i passi incessanti verso la meta, la scalata verso un obiettivo sconosciuto. Dujardin si immerge in un’interpretazione silenziosa, fatta di espressioni sottili, di rari scambi con altre persone che condividono parte del tragitto. Il suo Pierre è dolente, malato, ma non si abbandona alla disperazione. Forse anche lui cerca “la pantera delle nevi”, segue le tracce dell’impossibile per convincersi che possa esistere la salvezza. A passo d’uomo è un film quieto, e racconta un conflitto interiore che ci coinvolge tutti.

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Un foglio accartocciato e ritrovato in fondo a una borsa: come dice lo stesso Sylvain Tesson nel libro e come sentiremo ribadire da Jean Dujardin nel film, è il motivo che porterà Pierre, il protagonista di A passo d’uomo, ad attraversare la Francia. Nello specifico tutto ha inizio da un volo di 8 metri dall’alto di un edificio dopo una serata ad alto tasso alcolico, uno stupido incidente che lo lascerà sordo da un orecchio, senza olfatto, con evidenti cicatrici sul corpo, frequenti attacchi epilettici e per qualche tempo quasi paralizzato.
(…) Siamo dalle parti di Into the Wild, ma lontano dal lirismo e dalla dimensione più ancestrale e intima dell’opera che regalò a Emile Hirsch forse il ruolo più importante della sua carriera: un classico racconto di redenzione, riscatto e ricerca di libertà nello slancio selvaggio della natura. (…) Da un lato il personaggio dei flashback perso tra gli eccessi dell’alcol e gli incontri mondani, dall’altro quello delle immagini di viaggio, l’esploratore solitario, il viandante spesso spigoloso e poco incline alla generosità, un uomo in fuga che non ha “né la rabbia del sabotatore, né la forza dell’attivista”. C’è in A passo d’uomo l’ostinazione del viaggiatore, l’introspezione, ma anche progresso vs lentezza, la nostalgia per una Francia rurale che non c’è più, sopraffatta dai ritmi sfrenati della modernità e lo scoramento di dover constatare l’inesorabile spopolamento di alcune aree dove “ciò che non era chiuso era in vendita e ciò che era in vendita faticava a trovare un acquirente”. Difficile seguirle tutte. Pierre è anche i personaggi che incontra nel suo peregrinare: contadini, cacciatori, compagni di viaggio che decidono di accompagnarlo per brevi tratti (compreso un vecchio amico e la sorella), gli abitanti di alcuni remoti villaggi della campagna francese.

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