Anatomia di una caduta

Justine Triet

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Palma d'oro al Festival di Cannes, 2023

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Sandra, una scrittrice tedesca, vive con il marito Samuel e il figlio non vedente Daniel in un remoto chalet di montagna sulle Alpi francesi. Quando Samuel muore in circostanze misteriose, le indagini non possono determinare se si tratti di un suicidio o meno. Alla fine Sandra viene arrestata per omicidio e il processo mette a nudo la relazione tumultuosa che aveva con il marito, nonché la sua personalità ambigua. Le cose si complicano quando anche il giovane figlio arriva al banco dei testimoni.
DATI TECNICI
Regia
Justine Triet
Interpreti
Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner, Antoine Reinartz, Samuel Theis, Jehnny Beth, Saadia Bentaïeb, Camille Rutherford, Anne Rotger
Durata
150 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Arthur Harari
Fotografia
Simon Beaufils
Montaggio
Laurent Sénéchal
Distribuzione
Teodora Film
Nazionalità
Francia
Anno
2023

Presentazione e critica

La scrittrice tedesca Sandra Voyter sta rilasciando un’intervista nello chalet sulle montagne vicine a Grenoble dove vive insieme al marito Samuel Maleski e al loro figlio non vedente Daniel. La conversazione fra lei e la giovane giornalista divaga, ed è infine interrotta dalla musica a tutto volume suonata da Samuel. Qualche ora dopo Samuel viene trovato morto sul selciato innevato davanti allo chalet: si è gettato o è stato ucciso? Sarà questo il dilemma da risolvere attraverso un’indagine minuziosa e un processo complicato e seguitissimo dai media. Ad assistere Sandra, principale indagata, è l’avvocato Vincent Renzi, suo amico di lunga data, e ciò che emergerà dalle indagini, prima ancora che un verdetto, è il problematico rapporto coniugale fra Sandra e Samuel, che ha trovato il punto di rottura nell’incidente all’origine della cecità di Daniel.

Anatomy of a Fall utilizza i meccanismi del film di indagine quelli del “courtroom drama” per parlare d’altro: infatti non va valutato come esempio riuscito dei due generi, dei quali non ha la coerenza ermetica, ma come esplorazione metaforica di una relazione di coppia come questione supremamente percettiva. La valutazione delle scelte di Sandra e Samuel diventa talmente divergente da formare due realtà parallele, e in mezzo c’è Daniel, che non può che pagare lo scotto della reciproca cecità fra i suoi genitori. La falsariga lungo la quale si muove la narrazione è quella fra finzione e realtà anche perché Sandra è una scrittrice di successo che attinge al suo privato (e alle idee del marito) con indelicata leggerezza, mentre Samuel vorrebbe esprimersi attraverso la scrittura ma non ne trova il tempo, lo spazio e la determinazione (e forse non ne ha neppure la capacità).

La regista francese Justine Triet alza parecchio il tiro rispetto al suo precedente Sibyl – Labirinti di donna nel creare una storia (scritta insieme all’attore e sceneggiatore Arthur Harari) tesa e inquietante che compie una scelta fondamentale: quella di ribaltare i ruoli di coppia tradizionali, non solo perché lei è un’autrice di successo e lui resta a casa ad occuparsi del figlio, ma perché le rimostranze dell’uno verso l’altra, scandagliate chirurgicamente in una delle scene principali del film, di solito vengono applicate a generi invertiti. L’altro asso nella manica di Triet sono due superbi attori: Swann Arlaud nel ruolo dell’avvocato Renzi e soprattutto Sandra Huller in quello della protagonista sua omonima (il che fa venire il sospetto che la parte sia stata scritta su di lei): la sua risata, allo stesso tempo salvifica e ferina, è al centro di una caratterizzazione magistrale. Sandra Voyter non si relaziona alle persone se prima non ne ha individuato l’archetipo animale, e quale sia l’archetipo di Samuel lo si capirà solo alla fine. Nel frattempo emergerà tutta la disfunzionalità di una coppia in cui le rinunce dell’uno in nome dell’altra (e viceversa) sono vissute come imposizioni mal tollerate, e di un sistema giudiziario che preferisce soffermarsi sul come che sul perché di certe derive destinate a finire in tragedia. Trier dirige avvicinandosi e allontanandosi dai suoi personaggi, talvolta oscurandoli e poi riportandoli in piena luce, altre volte dissociando l’immagine dal suono, senza abbandonarsi a inutili virtuosismi ma mettendosi a servizio di una storia di doppie verità e di invisibilità a se stessi, senza scene madri ma attraversata da mille piccoli scollinamenti morali. Anche i “trending topic” della contemporaneità – la fluidità di genere, le pari (o dispari) opportunità – sono gestiti con parsimonia, e spesso indicati più come manipolazioni retoriche che come circostanze rilevanti. Perché la verità, suggerisce Triet, è scomoda e sottile, crea dissociazione e disagio. E la vita secondo la regista è “un caos in cui tutti siamo persi”, dove la compulsione a giudicare è superiore alla disponibilità a comprendere, e tutti si sentono in credito: di attenzione, di riconoscimento, e soprattutto di amore privo di condizioni e giudizi.

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La caduta di un corpo nel vuoto. Un volo che si arresta sul terreno innevato di fronte a uno chalet lasciando sul bianco alcune tracce di sangue. Insieme a quel corpo nel vuoto precipitano anche una coppia, una famiglia, l’infanzia di un bambino. La caduta, come dice il titolo, è il centro stesso dell’idea narrativa di Anatomia di una caduta di Justine Triet, che da lì – ricostruendo come l’uomo sia morto – comincia a entrare nel corpo vivo delle relazioni tra i personaggi, quelle che hanno preceduto l’evento tragico. La dinamica della caduta appare infatti confusa, le ricostruzioni non convincono e si aprono diverse interpretazioni che portano Sandra, la moglie di Samuel, l’uomo precipitato, a essere imputata per omicidio in quello che inizialmente era parso un suicidio.
Provando a ricostruire l’accaduto, il film mette in atto uno studio “anatomico” delle relazioni attraverso una sceneggiatura precisissima che smonta, rimonta, suggerisce, apre varchi possibili con i tempi lunghi e metodici di una causa che sembra poter anche non arrivare mai a determinare la verità. La narrazione diventa così una sorta di paradossale autopsia che prende forma tra gli spazi della casa e poi, sempre di più, in quelli dell’aula dove si svolge il processo. Ma un’autopsia stranamente vitale che parla di amore e di competizione nella coppia, di tensioni e accettazione, di conflitti e riparazioni. Un’autopsia che seziona la vita e i molti modi di interpretarla, farla propria, subirla e – forse – anche di mettervi fine.
Per fare questo il film lavora con grande finezza sulla parola continuamente al centro delle dinamiche processuali ma anche della stessa vita familiare. Non solo perché Samuel e Sandra – entrambi scrittori, in crisi lui, di ben maggior successo lei – con le parole ci lavorano ma anche perché ogni tentativo di scandagliare i fatti dentro e fuori dall’aula si basa su un uso mutevole per forma, intenzione e interpretazione delle parole. Non è un caso infatti che il film inizi con una musica assordante che impedisce a Sandra di portare a termine l’intervista con la studentessa che ha ricevuto in quello sperduto chalet tra le montagne della Chavannes in cui Samuel l’ha costretta ad andare con Daniel dopo che un incidente di cui sente tutta la colpa ha quasi causato la perdita della vista al ragazzino. Parole che si disperdono coperte dai suoni, o che si dissolvono nell’aria come quelle che dovrebbe aver sentito Daniel e che sembrano poter essere una prova determinate, parole che scorrono su uno schermo proiettate nell’aula del tribunale traducendo una registrazione in cui urla e rumori inseriscono altri elementi di possibile contestualizzazione dei fatti, parole che vengono citate dalla lettura manipolatoria dei libri di Sandra dall’agguerrito pubblico ministero, parole che spesso si smorzato nel coinvolgimento emotivo dell’avvocato difensore, parole che si sovrascrivono alle immagini evocate dai ricordi di Daniel o rivissute da Sandra mentre la sua vita, le sue abitudini, il suo essere vengono impietosamente rivelati al mondo e al suo stesso figlio.
In questo lavoro di messa in discussione della parola e della sua centralità, della sua unica ipotetica valenza, della sua mai esclusiva verità sta tutta la qualità del film di Triet che sgombra il campo da ogni ricercatezza formale lasciando le immagini ruvide, gli ambienti essenziali e consegnando agli attori – su tutti la magnifica enigmatica Sandra Hüller – il compito di portare in scena questa complessa dissezione della vita relazionale e delle sue cadute.

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