Dogman

Luc Besson

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Doug, nonostante la giovane età, ha avuto una vita dura e sofferente. Sin da bambino ha subito violenze e maltrattamenti da parte del patrigno, crescendo in compagnia degli unici amici che aveva, ovvero dei fedelissimi cani. Una volta adulto, Doug, ancora tormentato dai ricordi della sua infanzia, si ritira in solitaria e si rintana in una scuola abbandonata, dove vive insieme a un branco di cani. L'uomo si esibisce come drag queen, ma il suo sostentamento arriva proprio dai suoi amici a quattro zampe, che sono stati la sua ancora di salvezza in questa esistenza misera e con cui ha ormai sviluppato un legame profondo. I cani non sono soltanto i suoi amici, ma anche i suoi complici...
DATI TECNICI
Regia
Luc Besson
Interpreti
Caleb Landry Jones, Marisa Berenson, Christopher Denham, Jojo T. Gibbs, Michael Garza, James Payton, Bennett Saltzman, Clemens Schick, Eric Carter, Avant Strangel, Derek Siow, Ambrit Millhouse
Durata
114 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Luc Besson
Fotografia
Colin Wandersman
Montaggio
Julien Rey
Musiche
Éric Serra
Distribuzione
Lucky Red
Nazionalità
Francia, USA
Anno
2023
Classificazione
6+

Presentazione e critica

“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”, recita la tagline di Luc Besson, che cita il poeta Alphonse de Lamartine per introdurre quello che, secondo la nostra recensione, è la sua miglior pellicola dai tempi di Léon. E guarda caso, come Jean Reno e Natalie Portman nel 1994, anche questa è una storia di randagi, di ultimi, di dimenticati. Di amore condiviso, e di inaspettate guarigioni. Una storia di dignità, di amicizia, di dolorosa dolcezza, che accende un dramma dalle venature pulp (non mancano i colpi di fucile), rifacendosi per estetica alle tavole di una graphic novel. Invece, Dogman, presentato in Concorso a Venezia 2023, è materia originale, organica, ispirata solo in parte da un articolo di giornale che raccontava di un bambino chiuso in gabbia quando aveva cinque anni. Attorno a questa esperienza, allargando il campo e facendoci sentire ogni sequenza, Luc Besson mette in piedi la struttura di un film genuino, che se ne frega delle imperfezioni e dell’incredibilità, facendoci fare il tifo per un eroe incompiuto che, come fosse una favola, legge Romeo e Giulietta ad una platea di spelacchiati e irresistibili trovatelli. Nemmeno a dirlo, una scena che vale il film.
Già, un eroe incompiuto. Un eroe a metà, che abbracciamo e teniamo per mano, dall’inizio alla fine. Prendiamo le sue parti, sempre e comunque. Un personaggio scritto per restare, per essere tanto controverso quanto lucido nella sua ragionata visione. Attorno al suo mondo, attorno al mondo di Douglas (Caleb Landry Jones, semplicemente pazzesco), ci sono le appiccicose e orrorifiche ombre del suo violento padre e del suo gretto fratello, timorati da un Dio che li ha resi codardi e spregevoli. Individui malati, incapaci di provare amore, riversando la violenza addosso a lui, addosso a sua madre, addosso ad un branco di cani chiusi in gabbia, e tenuti a digiuno per renderli cattivi e famelici. Se non fosse che “i cani sono migliori degli uomini. Hanno tutte le loro virtù, e nessuno dei loro difetti. Tranne uno: fidarsi troppo”.
Tranquilli, però: in Dogman, per chiara e nobile scelta stilistica, non è mai mostrata una violenza diretta verso i cani, costantemente tenuti in scena dal racconto incrociato di Douglas, che da ragazzino viene sbattuto da suo padre nella gabbia dei cani, per aver mostrato loro compassione e affetto, ritrovandolo poi cresciuto, a bordo di un furgone, truccato come fosse Marilyn Monroe, ferito e sporco di sangue. Cosa sarà successo? Ecco, partendo dal citato stralcio di articolo di giornale, Luc Besson immagina la vita futura del ragazzo, curato dall’amore dei cani. Un ragazzo interrotto, letteralmente spezzato (da grande sarà su una sedia a rotelle, ma non vi riveliamo il motivo), che ha somatizzato l’orrore e la violenza per tramutarla in empatia verso i randagi come lui. Verso i più deboli, contro i ricchi e contro il potere. Convinto che il mondo necessiti di più equità, più equilibrio, più redistribuzione.

A proposito di favola, Dogman è di quelle nere, nerissime. Una favola di emarginati, in cui la tristezza si fonde con le radici di un albero dal passato segnato, e cresciuto nel bel mezzo della tempesta. Quello messo in scena da Luc Besson, allora, è cinema di genere postmoderno che strizza l’occhio agli Anni Novanta. È cinema di formazione, è cinema pop ed è cinema di sentimenti. Perché, dietro la fitta coltre crepuscolare, il valore del racconto è da trovare negli sguardi di fiducia tra Douglas e i suoi fedeli cani, che lo capiscono alla sola occhiata. Lui è uno di loro. Un irregolare, uno che all’apparenza preferisce la sostanza, prendendosi gioco del mondo (e di sé stesso) truccandosi da Edith Piaf, e cantando il venerdì in un night club. Sguardi e dettagli, intanto che la regia di Besson trasuda odori, colori, suggestioni.
Conscio del tema, nonché della responsabilità nell’accendere il ritmo e il tono che non scendono mai, il regista francese coglie in pieno l’enfasi della sua sceneggiatura e del personaggio, reso meraviglioso dalla schizofrenica e sincopata interpretazione di Caleb Landry Jones, amalgamando la disgrazia perpetua ad un corroborante e confortevole calore, tanto umano quanto canino (lo ammettiamo, un po’ più canino…). Per questo, anche se l’abbiamo scritto all’inizio, ci torniamo: Dogman, nella semplicità di opera pura, marcatamente emotiva e ingenua nella sua svagatezza, supera ogni tipo di incertezza trovando forza nell’evoluzione di Douglas, di pari passo alla simpatica e genuina truppa di fedeli compagni. Dopotutto, tra le increspature scure e il jazz di Miles Davis, per non rinunciare ad uno spassionato accenno di eclettico umorismo, Dogman è un film sulla salvezza, e sul lato puro dell’anima. Una salvezza che passa attraverso la cura e la protezione data e sorretta dall’amore che non chiede nulla in cambio, e perciò divino nella sua più alta forma emozionale ed espressiva. Del, resto “i cani non mentono quando parlano d’amore”.

Movieplayer.it

Dopo la straordinaria prova attoriale di Nitram (2021), per cui si è aggiudicato la Palma d’oro come miglior interpretazione maschile al Festival di Cannes 2021, l’eclettico Caleb Landry Jones si mette nuovamente nei panni di un personaggio complesso ed estremamente sfaccettato. Cuore da eroe e mente da villain, il suo Douglas – soprannominato Doug, evidente richiamo fonetico al titolo e alla trama del film – è il vero punto di luce di un film sorprendentemente valido, probabilmente l’opera del regista francese che meglio riuscirà a imporsi come mainstream.
Dogman racconta la storia di Douglas, auto-soprannominatosi Doug: è una sorta di origin-story molto equillibrata nel suo arco. Dall’infanzia passata letteralmente chiuso in una gabbia, vittima di figure maschili dispotiche nella casa, arrivando al presente narrativo in cui Doug si trova in prigione e viene interrogato da una psichiatra, Besson ci accompagna alla scoperta di un personaggio molto sfaccettato, che “ruba” da tanti villain o anti-eroi moderni, fra cui il Joker di Heath Ledger e l’Elijah Price di Samuel L. Jackson, quanto da icone drag e dive del cinema passato. Una figura fluida nell’animo e nei modi, nonostante i gravi problemi fisici, apparentemente imprendibile, almeno fino a quando non avrà come interlocutrice un’altra persona che conosce il dolore e che varrà la pena proteggere. Douglas ha passato una vita a psicoanalizzarsi, dunque, non sorprende che il suo dialogo con la psichiatra sia più da intendere come un racconto che una confessione. Il racconto di una vita su cui hanno gravato le disattenzioni altrui, la scarsa considerazione, l’incapacità di relazionarsi con altri esseri umani. Besson mette in chiaro fin da subito le condizioni in cui vive Douglas, mischiando senza soluzione di continuità l’asprezza e la decadenza del pertugio attiguo al canile dove abita e, contemporaneamente, non dimenticandosi mai di far risaltare dei dettagli di arredamento significativi per Doug: il letto a baldacchino, la sua postazione make-up, i libri di cucine. Non a caso, dirà che le prime cose che ha imparato dalla vita gli sono state insegnate dalle riviste americane per il pubblico femminile.
Il vivere chiuso in una gabbia, tra la sporcizia animale, la melma e le sbarre che precludono un mondo, ha forgiato l’intera esistenza di Doug, il suo modus operandi come artista dell’animalità umana. La famiglia canina di cui si è circondato, che tanto dà e nulla toglie, funziona come un’estensione del protagonista. Lavorando in maniera serrata sul ritmo, sul montaggio e sulla scrittura, Luc Besson incanala la vitalità di Doug in ogni sequenza che coinvolge anche i suoi “figli“, quelli che si è scelto in epoca infantile anche per contrastare la violenza con cui il padre trattava queste creature. Tra Doug e i suoi cani vi è, inoltre, una terza figura: un Dio a cui Doug si affida, che ha sempre cercato, e da cui, come nel rapporto coi suoi cani, non ha mai preteso niente se non la sua volontà. In tanti modi – e anche in un fotogramma significativo – i lessemi God e Dog si fondono, a sottolineare la simbiosi tra forza ultraterrena e terrestre, carnale, che il film di Besson indaga. Seppur derivativo nella scrittura, come abbiamo già sottolineato, Dogman è un’aggiunta spumeggiante al concorso ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia 2023, l’operazione recente meglio prodotta di Luc Besson, dopo una serie di film ritenuti insuccessi. Caleb Landry Jones conferma la sua natura da performance mimetico e presta la sua energia a un regista che avevamo bisogno di vedere così a fuoco.

Cinefilos.it