Ferrari

Michael Mann

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Ambientato nell'estate del 1957, il film racconta il periodo di profonda crisi vissuto dall'ex pilota Enzo Ferrari, dopo che la bancarotta ha fatto capitolare l'azienda fondata da lui e sua moglie Laura soltanto dieci anni prima. In questo clima così delicato Ferrari crede una cosa possa sanare le ultime dolorose sconfitte della vita: scommettere tutto ciò che ha in una gara automobilistica, che percorre tutta l'Italia in 1000 miglia, passata poi alla storia, appunto, come Mille Miglia.
DATI TECNICI
Regia
Michael Mann
Interpreti
Adam Driver, Penélope Cruz, Shailene Woodley, Patrick Dempsey, Michele Savoia, Jack O'Connell, Sarah Gadon, Gabriel Leone, Valentina Bellè
Durata
130 min.
Genere
Biografico
Sceneggiatura
Michael Mann, Troy Kennedy-Martin
Fotografia
Erik Messerschmidt
Montaggio
Pietro Scalia
Musiche
Daniel Pemberton
Distribuzione
01 Distribution
Nazionalità
USA
Anno
2023

Presentazione e critica

Modena, 1957. Dodici anni dopo la fine della guerra, Enzo Ferrari, ex pilota di corse in lutto per la recente morte del figlio Dino, gestisce la sua azienda automobilistica con la moglie Laura e vive in segreto con l’amante Lina, madre del figlio illegittimo Piero. Ossessionato dalla competitività delle sue vetture nelle corse di velocità, Enzo spinge i suoi piloti a mettere a repentaglio le loro vite pur di prevalere, mentre la necessità di sostenere economicamente l’azienda lo costringe a rinegoziare la collaborazione con la moglie. La Mille miglia offrirà all’uomo e all’imprenditore Ferrari l’occasione per dare una svolta alla propria vita professionale e privata.

Michael Mann ha lavorato a lungo sulla figura di Ferrari, che nelle sue mani diventa un Saturno capace di divorare i propri figli (i due naturali e le sue stesse creazioni di metallo), padrone di sé e delle proprie ossessioni solamente nella dimensione della velocità estrema. A un certo punto di Ferrari, che copre un solo anno nella vita dell’imprenditore modenese salvo un paio di sporadici flashback e qualche inevitabile scorciatoia nella ricostruzione storica, il protagonista interpretato da Adam Driver dice al designer Sergio Scaglietti che la sua ultima creazione, la splendida Ferrari 250 Testa Rossa, ha «un culo più bello di una statua del Canova»: è uno dei pochi momenti del film, in realtà, in cui le celeberrime macchine rosse fiammanti, «fiore all’occhiello della produzione italiana» (come si sente dire dall’avvocato Agnelli), sono al centro della scena, pienamente descritte e osservate in quanto oggetti pesanti e metallici ma irresistibili e seducenti.

Per il resto, la biografia a lungo inseguita da Mann e scritta da Troy Kennedy Martin (che ha lavorato a partire dal libro di Brock Yates ‘Enzo Ferrari: The Man and the Machine’) privilegia il melodramma familiare e il ritratto sfaccettato di un uomo separato dalla sua stessa vita e dalle sue stesse creature. Non si vedono motori, in Ferrari, non si parla quasi mai di ingegneria, non viene quasi mai esaltata la dimensione puramente immaginifica delle rosse di Maranello (…).

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È il tuo viso che voglio vedere. Lo dice il commendatore, Ferrari, sulla tomba del figlio, Dino, dopo avergli raccontato dei suoi incubi, in cui ritorna il passato, ritornano gli amici morti, i dipendenti morti. A Dino il padre confida che sogna anche lui, sì. E quell’ultimo desiderio, è il tuo viso che voglio vedere, come a confessargli che è soprattutto del suo volto che ha bisogno, è per il commendatore anche una condanna. Una condanna che appartiene a tutti gli uomini manniani: la necessità di vedere meglio e di più, e insieme la consapevolezza lancinante di non poterlo fare a comando, e che la visione nitida, chiara, evidente, è sempre più lontana, sempre più distante da sé.

 

In questa scena al cimitero, la scena di un uomo titanico che piange come piangeva John Wayne sulla tomba della moglie in I cavalieri del Nord Ovest, si svela quello che già si annuncia con l’incipit del film, un montaggio di materiale di repertorio di auto in corsa e il volto ringiovanito di Ferrari al volante di una di esse, con tutta probabilità un sogno, ancora una visione, sempre una visione: l’impossibilità di trovare (una) requie. Che significa non potere trovare (la) pace. Ferrari non trova pace perché gli manca il tempo. D’altronde, è noto, nel cinema di Michael Mann il tempo stringe, si contorce come qui si contorcono e si liquefano la geografia, i confini, le strade, l’asfalto su cui sfrecciano i bolidi della Mille Miglia. Non c’è mai stato il tempo necessario a vivere un’intera vita, a esercitare un mestiere, nei film manniani: in Ferrari, a cui purtroppo buona parte della stampa e degli spettatori riserva la stessa indispettita sufficienza tributata più di vent’anni fa a Alì, cioè all’altro anti-biopic, il tempo è lo stesso abito che indossa il protagonista. Del film, il commendatore è il metronomo, non soltanto il termometro. Ferrari dà ritmo e lo toglie, lo contrae e lo libera, lo riprende per schiacciarlo e lo zittisce. Mai visto nel cinema di Mann un film così soggettivo: l’impressionismo di Alì e di Nemico pubblico – Public Enemies si assorbe completamente nella direzione di un interprete, Adam Driver, che nella sua distante e quasi spaventosa inviolabilità totemica conserva il magnetismo di Marlon Brando in Apocalypse Now.

 

Nessuna oggettività: come d’abitudine, Mann guarda in prima persona, non si fa guidare né dalla ricostruzione d’epoca, né dalle regole del genere, e sceglie la percezione, non il semplice narrato. E allora Ferrari, che qui è più e meno di un eroe, è un’immagine votiva e un uomo comune alla ricerca della perfezione, non può che rappresentare per Mann ancora una volta un’idea di mondo più grande del mondo, e perciò inadeguata, destinata a scontrarsi con la realtà. Destinata a sfracellarsi. Ferrari finisce per piegarsi davanti alla stessa pragmaticità della moglie Laura e dell’amante Lina, due donne più forti di lui, due donne che capiscono la Storia e il cuore, e non soltanto gli affari. Ma come in tutti i film manniani, è proprio il cuore che rovina i piani: di tutti, del perfezionismo del commendatore, dei sogni, delle illusioni di un’esistenza diversa, della famiglia come chiesa dei sentimenti. Eccoli ancora qui, i sentimenti: in Ferrari, dove perfino il mélo non ha il tempo sufficiente per svolgersi, i sentimenti sono veloci come le auto in corsa, giusto il momento di scrivere una lettera d’amore e d’addio, o di piangere sulla tomba del figlio qualche secondo in più, come avviene per Laura in uno dei classici primi piani prolungati (ricordate quello di Billie – Marion Cotillard nel finale di Nemico pubblico?). Per Michael Mann anch’essi, i sentimenti, sono soluzioni di continuità in un reale che, agli occhi di Ferrari, non può esistere se non a sua immagine e somiglianza. Gli iati manniani hanno sempre interrotto il fluire delle cose, e Ferrari ne è pieno: un travelling notturno di una strada che sembra appartenere alla notte losangelina di Heat – La sfida, un brevissimo ralenti sugli occhiali del commendatore (come i tradizionali tre-quarti sui volti degli attori, tornate con la memoria a Insider – Dietro la verità), una leggera carrellata in avanti sulla chioma di Lina sdraiata a letto sulla pancia (quanti sono i dettagli femminili nel cinema, il collo di Tang Wei in Blackhat, i capelli di Gong Li in Miami Vice…), le sospensioni musicali che sembrano aprire voragini (qui ritorna ancora una volta Sacrifice di Lisa Gerrard e Pieter Bourke, da cui Mann pare per nostra fortuna non riuscire ad affrancarsi), l’attesa del verde al semaforo (in una scena costruita con la stessa suspense silenziosa della fuga in auto di John Dillinger dal carcere, fermo al semaforo rosso in attesa del verde mentre dall’altra parte della strada un’auto della polizia fa lo stesso, in Nemico pubblico).

Per tutti questi motivi, Ferrari è l’ennesimo capolavoro di un cineasta che non si accontenta del dato e del documento e che cerca continuamente il proprio, di tempo. Un film che trova la sua vera conclusione con un dialogo, tra Ferrari e Laura, che ha lo stesso carattere testamentario del dialogo in Heat tra Vincent e Justine nel locale notturno ormai deserto, al ritorno del poliziotto dopo il sopralluogo sulla scena del crimine dell’omicidio della prostituta, «You don’t live with me. You live among the remains of dead people». Laura accusa il marito della medesima colpa, di averle sempre lasciato gli avanzi, dopo la fabbrica, dopo le amanti, dopo le macchine. (…) Ma il mondo scivola via, e va avanti da solo, anche perché «Don’t let yourself get attached to anything you are not willing to walk out on in 30 seconds flat if you feel the heat around the corner», era il mantra di Neil in Heat. Il calore, e non soltanto dietro l’angolo, Ferrari lo sente 24 ore al giorno per tutta la sua vita, quello dei motori, quello dell’officina, quello dei circuiti, quello del denaro, e del matrimonio, del tradimento, del presente, del futuro. Non potrebbe farne a meno. Come Mann. Il calore del cinema.

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