Il male non esiste

Ryûsuke Hamaguchi

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Takumi e di sua figlia Hana, che vivono nel villaggio di Mizubiki, vicino a Tokyo. Come le generazioni che li hanno preceduti, conducono una vita modesta secondo i cicli e l’ordine della natura. Un giorno, gli abitanti del villaggio vengono a conoscenza di un piano per costruire un glamping - un campeggio di lusso - a pochi passi dalle loro case. Quando i rappresentanti dell’azienda costruttrice di Tokyo arrivano nel villaggio per tenere una riunione, diventa chiaro che il progetto avrà un impatto negativo sull’approvvigionamento idrico locale, causando disordini. L’equilibrio ecologico del villaggio e il modo di vivere civile dei suoi abitanti sono messi in pericolo con conseguenze che influenzano profondamente la vita di Takumi e della piccola Hana.
DATI TECNICI
Regia
Ryûsuke Hamaguchi
Interpreti
Hitoshi Omika, Ryo Nishikawa, Ryuji Kosaka, Ayaka Shibutani
Durata
106 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Ryûsuke Hamaguchi
Musiche
Eiko Ishibashi
Distribuzione
Tucker Film e Teodora Film
Nazionalità
Giappone
Anno
20023

Presentazione e critica

In una località boschiva non lontana da Tokyo, il tuttofare Takumi e sua figlia Hana, di otto anni, vivono in armonia con la natura e con i pochi abitanti del luogo. Una grande impresa dello spettacolo decide però di aprire un glamping, ovvero un camping con il glamour di un resort, proprio sulla strada che i cervi percorrono per abbeverarsi, minacciando oltretutto la pulizia dell’acqua di sorgente, della quale gli abitanti tutti, umani e animali, fanno un uso vitale. La comunità si preoccupa e domanda spiegazioni, così due impiegati della grande azienda vengono mandati sul posto per chiedere l’aiuto e l’intercessione di Takumi.

Evil does not exist ha avuto una genesi particolare e di questa particolarità ha mantenuto complessivamente traccia. Dopo la fortunata collaborazione con Hamaguchi per la colonna sonora di Drive My Car, infatti, la musicista Eriko Ishibashi ha voluto nuovamente il regista giapponese per realizzare l’apparato visivo di una sua performance live, Gift, e dallo sviluppo successivo di questo lavoro è nato il film in oggetto.

Al centro del quadro c’è l’ambiente naturale, la cui complessità è paragonabile soltanto a quella della musica, unico mezzo artistico adatto a dargli voce. E poi c’è il modo in cui gli esseri umani si relazionano con la natura (quel rapporto che chiamiamo “ecologia”): un modo che passa anche dallo sguardo (quello “interno” di Takumi riconosce da lontano il wasabi selvatico), e che può essere più o meno rispettoso, a seconda della conoscenza che l’uomo ha del ritmo e delle leggi della natura. Una di queste leggi, ricordata dal sindaco della piccola comunità a proposito della possibilità che la fossa settica del glamping possa inquinare l’acqua sorgente, è quella per cui quello che si fa a monte ha inevitabilmente delle conseguenze a valle, con il corollario che chi sta a monte ha l’obbligo morale di comportarsi in maniera responsabile. Un’altra, relativa al mondo animale, insegna che i cervi non attaccano gli uomini (ma li guardano, meravigliosamente immobili) a meno di non essere stati da loro feriti, o a meno che i loro figli non siano stati messi in pericolo. Bastano forse queste due direttrici per raccontare i temi alla base di questa sinfonia visiva e sonora, e rappresentano i movimenti maggiori della scarna drammaturgia: le scelte che facciamo e che non riguardano mai solo i singoli, perché siamo parte di un (eco)sistema, e la violenza che ci appartiene forse naturalmente, come modalità di relazione. Grandi temi, ma sussurrati in maniera estremamente libera, persino ermetica, in un film che sfugge alla norma e resta aperto all’interpretazione.

 

 

Mymovies

Le folte chiome degli alberi viste dal basso, prima all’alba e poi al crepuscolo, aprono e chiudono Aku wa sonzai shinai (titolo internazionale: Evil Does Not Exist, cioè Il male non esiste), splendido apologo teorico con cui Ryusuke Hamaguchi approda in Concorso a Venezia 80 dopo il successo internazionale di Drive my Car.

È il dramma di una comunità – un villaggio nei pressi di Tokyo, emblematico di un Giappone non immune al tempo che passa ma ancora immerso in una dimensione atavica – riverberato nell’esperienza dei singoli, in cui sin dai primi, ammalianti minuti Hamaguchi stringe un patto con la natura, mettendosi in ascolto del suo ciclo perpetuo, dando a immagini “documentaristiche” la caratura epica di un quotidiano che si ripete identico nei secoli. A interrompere quell’ordine delle cose che si rinnova di generazione in generazione, fondato sul rispetto degli spazi, sulla convivenza con gli animali (i cervi che, se feriti, attaccano) e soprattutto sulla centralità dell’acqua, ci si mettono due funzionari, che convocano gli abitanti della comunità per comunicare (e non mettere in discussione) l’imminente costruzione di un glamping, inteso a offrire ai residenti delle città una fonte di evasione nella natura.

La lunga sequenza del confronto è memorabile: usando un’efficace alternanza di campi e controcampi, Hamaguchi (anche montatore con Azusa Yamazaki) mette al centro le parole, delega la tensione alla temperatura emotiva del dibattito, affida a una serie di personaggi diversi (un giovane fumantino, il sindaco saggio, la forestiera trapiantata e, in primis, il tuttofare) il compito di raccontare l’anima di un luogo, il senso di una storia, l’identità di un popolo. Tutto ciò perché si capisce da subito che il progetto, così com’è stato pensato, avrà un impatto negativo sulla rete idrica locale, sovvertendo le abitudini di umani e animali e mettendo in pericolo l’equilibrio ecologico dell’altopiano. Per evitare che esploda il malcontento generale, da Tokyo si architetta un piano: portare il carismatico tuttofare Takumi (lo straordinario Hitoshi Omika), che cresce da solo una figlioletta vivace, dalla parte dei barbari, affidandogli un incarico di responsabilità che possa garantire il villaggio. Assistito da una pulizia dello sguardo che gli permette di scoprire il dramma del quotidiano e da una rara capacità di sentire l’altro cogliendo l’umanità dietro la fissità, Hamaguchi si conferma un narratore incredibile nel tradurre la teoria in pratica. In Evil Does Not Exist, un film libero e vivo, piccolo e universale, c’è più disincanto e meno malinconia rispetto al fortunato dittico del 2021 (Il gioco del destino e della fantasia e Drive my Car) e si percepiscono gli echi della tradizione locale (Mizoguchi e Ozu) così come del cinema indipendente americano (Cassavetes resta il faro dell’autore). Soprattutto, al di là di qualche veniale tendenza alla dilatazione, Hamaguchi – qui sostenuto dall’immersiva colonna sonora di Eiko Ishibashi, personaggio a sé – è un regista che lascia spazio allo spettatore: lo dimostra il finale a sorpresa, che se da una parte forse evidenzia la struttura a tesi – magari deludendo qualche aspettativa – dall’altra ci chiede lo sforzo di incaricarci di una risposta, interrogando non solo la nostra sensibilità ma anche le nostre paure.

Cinematografo

Anche sceneggiatore, Hamaguchi ha costruito il film partendo dalle suggestioni suscitategli dall’ascolto di alcuni brani della cantautrice Eiko Ishibashi (con cui aveva già collaborato nel precedente Drive My Car). Il racconto sembra quindi trasformarsi in un’ideale partitura, frammentandosi in lunghe sequenze dai tempi dilatati che restituiscono la temporalità ciclica e astratta dei luoghi, spezzata dall’improvvisa irruzione delle logiche del capitalismo metropolitano (fondato sul principio del consensus decision-making, come mostra la riunione dei responsabili della Pyramid a Tokyo), completamente estranee all’economia locale di piccola scala.

Successivamente, la focalizzazione si sposta sul confronto tra il burbero Takumi, perfetto rappresentante di una cultura sospesa tra un rispetto mistico degli elementi e un superiore senso comunitario, nonché nascostamente tormentato dal fantasma della morte e della violenza, e i due impiegati della Pyramid, che cercano invece d’instaurare un dialogo forse irrealizzabile con il loro universo urbano-borghese. Ed è proprio questo confronto, impossibile malgrado l’apertura all’ascolto e l’intercessione dialettica dello scambio verbale (nel film, come spesso succede nel cinema dell’autore, la parola soccombe al silenzio), a innescare la tragedia che trasforma gli ultimi minuti del film, attraverso un cambio di registro spiazzante, in una lugubre trenodia. A fare di Hamaguchi un grande regista basterebbe la sua capacità di opporre il linguaggio muto delle cose (per riprendere una riflessione del compianto Angelo Guglielmi a proposito del cinema neorealista) alla verbosità inconcludente degli uomini, di seminare indizi onirici e segnali di morte in un unico fotogramma (la carcassa del cerbiatto, il sangue che gocciola dalle frasche), di cambiare toni e metri proprio come se il suo linguaggio fosse più vicino alle accelerazioni improvvise e alle dilatazioni estenuanti della musica, di sottrarre le piccole fratture impercettibili al flusso inarrestabile della vita (capacità che lo accomuna ai grandi maestri del cinema classico giapponese). E anche se non ha la compiutezza dei suoi capolavori (Happy Hour, Drive My Car), Il male non esiste possiede però la stessa capacità di muoversi tra antropologia e metafisica con impalpabile leggerezza.

 

Cineforum