Il popolo delle donne

Yuri Ancarani

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Il popolo delle donne, il documentario diretto da Yuri Ancarani, è un'indagine approfondita sulla natura della violenza maschile nei confronti delle donne. Marina Valcarenghi è una psicoterapeuta e psicoanalista che lavora a stretto contatto con uomini detenuti in carcere per reati di natura sessuale. Porta sullo schermo la sua esperienza e gli oltre quarant’anni di lavoro clinico attraverso un confronto con gli studenti dell’Università degli Studi di Milano, decenni di colloqui con uomini violenti e di testimonianze in tribunale sono alla base dello studio fatto dalla psicoterapeuta sulle dinamiche che portano a gesti di violenza estrema. Il ruolo crescente della donna all’interno della società sembra aver peggiorato e aumentato i crimini di violenza sessuale nei suoi confronti. Si indaga anche sulle dinamiche relazionali, tra uomo e donna, che scatenano gli episodi di aggressione fisica e verbale che spesso finiscono in femminicidio.
DATI TECNICI
Regia
Yuri Ancarani
Interpreti
Marina Valcarenghi
Durata
65 min.
Genere
Documentario
Sceneggiatura
Yuri Ancarani, Marina Valcarenghi
Fotografia
Thomas Pilani
Montaggio
Yuri Ancarani
Musiche
Caterina Barbieri
Distribuzione
Barz and Hippo
Nazionalità
Italia
Anno
2023
Attività

Presentazione e critica

Milano, Università Statale degli Studi. Nel giardino del cortile della Legnaia, seduta dietro una cattedra collocata sul prato, che si fa teatro pubblico, la psicanalista Marina Valcarenghi offre una dissertazione sulle cause della violenza sulle donne e le possibilità di contrastarla. Laureata in giurisprudenza, giornalista, fondatrice di VIOLA, associazione per lo studio e la psicoterapia della violenza e di una scuola psicoterapeutica, la dottoressa è stata la prima psichiatra italiana a lavorare in carcere con detenuti in isolamento per omicidio, stupro e pedofilia, documentati nei saggi “Ho paura di me – Il comportamento sessuale violento e L’insicurezza. La paura di vivere nel nostro tempo”.

L’esposizione di Marina Valcarenghi non è quella di una lectio magistralis, dai toni e dai linguaggi accademici; piuttosto, un concentrato del sapere raccolto nella sua attività dagli anni Settanta a oggi.
Un ragionare pragmatico e partecipe, un passaggio di testimone alle nuove generazioni, che arriva da una militante che ha molto indagato la relazione tra disagio psichico e tessuto sociale. Si va alle radici dell’odio per affrontarlo con gli strumenti più adatti, per produrre antidoti al facile e inutile vittimismo e alla negazione della violenza come istinto umano. A supporto delle sue idee, infatti, la specialista riporta dichiarazioni annotate nella sua attività di terapia coi detenuti in isolamento, ma anche in analisi, in modalità privata. La premessa logica è la constatazione dello squilibrio macroscopico tra il tempo storico in cui le donne sono state oppresse e il breve arco temporale (trent’anni, dal 1946 al 1976 circa) in cui leggi e referendum hanno dato l’avvio alla loro emancipazione. Un “cambiamento epocale” – la fine della patria potestà, l’affermazione economica delle donne, soprattutto – che inevitabilmente avrebbe generato una reazione violenta. Che non è stata prevista.

Nato come cortometraggio all’interno della sua mostra “Lascia stare i sogni”, al PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) di Milano nel 2023, Il popolo delle donne – Il film del videoartista Yuri Ancarani (Il Capo, The Challenge, Atlantide) ne rappresenta lo sviluppo, scaturito da lunghe conversazioni private tra il regista e la psicanalista. Affronta senza preamboli un fenomeno dilagante che i media talvolta riportano in modo parziale e inefficace, dirottando l’attenzione su chi agisce la violenza e non sul come comprenderla. Perché alla base di violenza e odio sta una paura – legata alla perdita improvvisa di potere, a un suo riequilibrio – che parte del genere maschile non è pronto ad assimilare. Ponendola al centro di un luogo di sapere, di spinta utopica e cambiamento, Ancarani inquadra la relatrice sia di fronte che di lato, con stacchi continui che ne seguono la direzione dello sguardo. Una scelta di montaggio che evita il pericolo di monotonia di un’esposizione individuale, simula l’attenzione di più interlocutori, ricordando che il discorso è di interesse collettivo.

I piani sulle parole misurate e concrete di Valcarenghi si alternano a immagini di un gruppo di studenti che prepara alcuni cartelli e uno striscione, protagonisti della scena finale del film: un corpo a sé stante, girato fuori dall’università. Nessun elemento scenico, se non i pochi collocati sulla scrivania, distoglie l’attenzione dal ragionamento. Sono la voce, le pause, lo sguardo stesso della psicanalista a strutturare e dare incisività e sostanza ai concetti. Come “la misoginia è una confessione e nello stesso tempo è un’oppressione”. Oppure: “nessuna minoranza né maggioranza mai nella storia è stata oppressa come sono state oppresse le donne, in quasi tutto il mondo e in qualche parte ancora adesso. Mai. Quando dico che le donne sono un popolo, voglio dire questo”.
Pamphlet didattico, profondamente rivoluzionario, che richiama tutte e tutti a uno sforzo maggiore di comprensione e partecipazione, Il popolo delle donne è una versione aggiornata del manifesto nella rivista di lotta o del volantino novecentesco. Il suo approdo naturale è nella sala cinematografica, nei cineforum, tra le associazioni, nelle scuole e, per volontà della sua autorevole messaggera, anche nei tribunali, auspicabilmente a beneficio di chi è incaricato per legge di comprendere a fondo e decidere non solo su entità della pena, ma su rapporti di forza, consapevolezze, modalità di riabilitazione. (…) Perderselo significherebbe privarsi di una rara opportunità di intelligenza, esercizio critico.

Mymovies.it

Da un’intervista con la regista:

Il film evidenzia il rapporto fra la crescente affermazione sociale delle donne e l’aumento della violenza sessuale maschile: un fenomeno opposto a quanto generalmente si supponeva. Protagonista è Marina Valcarenghi, psicoterapeuta e psicoanalista con quarantacinque anni di lavoro clinico sulle spalle. Per prima ha introdotto la psicoanalisi in carcere, lavorando nei reparti di isolamento maschile con detenuti in gran parte condannati per reati di violenza sessuale. Dalla sua esperienza, ancora in corso, Valcarenghi ha potuto osservare come l’insicurezza femminile sopravviva e proporre un’analisi lucida e feconda di nuove possibili direzioni.

«Ho conosciuto Marina Valcarenghi mentre lavoravo ad Atlantide. Marina ha lavorato sui diritti delle donne, portando nelle carceri di Opera e Bollate la psicanalisi, parlando con stupratori, assassini e studiando come pochi altri in Italia in tema di violenza di genere. Spesso durante i nostri incontri emergevano questi argomenti per niente facili anche solo da ascoltare e, dato che sono sempre stato interessato a muovermi in territori pericolosi, ho pensato di restituire questa sua conoscenza in un film che, a differenza di altri miei lavori, non riguarda tanto “un luogo” ma un argomento.»

Cinematografo.it

 

“La violenza non è il male, è un istinto. Che l’essere umano deve imparare a gestire”. Queste sono le parole con cui si esprime Marina Valcarenghi, psicoterapeuta di scuola junghiana con un’esperienza di oltre trent’anni nelle carceri con detenuti per reati di violenza sessuale. È lei la protagonista de Il popolo delle donne, l’ultimo film di Yuri Ancarani presentato al Festival del Cinema di Venezia 2023, nell’ambito delle Giornate degli Autori. Proprio durante le riprese di Atlantide – presentato nel 2021 nella sezione Orizzonti della Mostra – l’artista incontrava la dottoressa Valcarenghi, in veste di consulente. L’idea di realizzare un ideale secondo volume della sua indagine sul maschile è nata quindi già sul set del suo primo lungometraggio.

L’estetica asciutta e misurata di Ancarani fa da controcanto alla chiarezza espositiva di Valcarenghi, che siede in una cattedra collocata nel Chiostro della Statale di Milano, con intorno una trentina di sedie occupate da altrettanti studenti. Sulla cattedra una bottiglia d’acqua e un orologio, si tratta di una lezione di un’ora (la stessa durata della pellicola), tempo in cui l’unico volto ad essere inquadrato è quello della psicoanalista. Di fronte, di profilo, di tre quarti: punti di vista che coincidono con gli sguardi degli studenti ma anche degli spettatori al cinema che, grazie a questo escamotage, vengono catapultati nel chiostro. Il ritmo del montaggio è scandito così dai movimenti del collo della protagonista, soluzione efficace che rafforza l’idea di interazione con l’uditorio. La psicoanalista esordisce con tono mite ma con parole dirompenti, scomode, per il patriarcato ma anche per le femministe. La violenza sulle donne, dice, è in aumento perché gli uomini hanno perso in pochi anni il controllo di un potere che detenevano da millenni. L’identità maschile sta attraversando un momento di grande fragilità, proprio mentre quella femminile si rafforza. Ciò genera paura, e la paura può sfociare nella disperazione e, in casi estremi, in brutalità incontrollata, stupri e femminicidi.

Questo non significa giustificare o accogliere i comportamenti violenti, ma comprenderli. Sia da parte degli uomini, che necessitano di una educazione emotiva in grado di abbracciare e accettare il cambiamento che sta investendo il loro genere; sia da parte delle donne, che a loro volta devono approntare nuovi strumenti di convivenza.

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