Kafka a Teheran

Ali Asgari, Alireza Khatami

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Kafka a Teheran segue persone comuni di vari ceti sociali mentre si muovono tra vincoli culturali, religiosi e istituzionali, imposti loro da diverse autorità, che vanno dagli insegnanti ai burocrati, nell'Iran contemporaneo. Ogni vignetta ritrae e cattura lo spirito e la determinazione di queste persone, diventando il ritratto di una società complessa e delle sue contraddizioni.
DATI TECNICI
Regia
Ali Asgari, Alireza Khatami
Interpreti
Bahram Ark, Arghavan Shabani, Servin Zabetian, Sadaf Asgari, Faezeh Rad, Hossein Soleymani, Majid Salehi, Farzin Mohades, Gouhar Kheir Andish, Ardeshir Kazemi
Durata
77 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Ali Asgari, Alireza Khatami
Fotografia
Adib Sobhani
Montaggio
Ehsan Vaseghi
Musiche
Masoud Fayaz Zadeh
Distribuzione
Academy Two
Nazionalità
Iran
Anno
2023

Presentazione e critica

L’Iran, il cinema, la politica. (…) Dal dramma relativo alla condizione femminile, fino ai tanti episodi di incarcerazione dei registi più famosi nel mondo (come Jafar Panahi, per dirne uno solo), l’Iran contemporaneo è purtroppo un luogo dove la libertà individuale e collettiva è soggetta a drammatiche limitazioni. Drammatiche e assurde, laddove ogni gesto, ogni azione, ogni manifestazione esteriore del proprio essere può essere interpretato dalle autorità come qualcosa di sovversivo, offensivo, improprio, blasfemo, in base a un’interpretazione del tutto arbitraria e imprevedibile.
Fin dal titolo italiano capiamo che Kafka a Teheran vuole raccontare appunto questo: l’assurdità di un regime, la violenza psicologica di un potere sui suoi sottoposti, le difficoltà continue e per noi impensabili del vivere quotidiano.

Scritto e diretto da Ali Asgari e Alireza Khatami (i quali hanno ovviamente avuto i loro problemi in patria dopo aver presentato il film in prima mondiale a Cannes), Kafka a Teheran fa della semplicità il suo punto di forza principale: è composto da dodici quadretti, dodici episodi, nei quali dei personaggi si trovano a andare a sbattere contro la natura paradossale, rigidamente ideologica e squisitamente liberticida di un potere che può assumere varie forme (dalla preside di una scuola a un possibile datore di lavoro, da un funzionario dell’anagrafe alla commessa di un negozio, passando per burocrati vari) ma che è accomunato dall’essere ottuso, irremovibile e invisibile.
Di questi dodici capitoli noi vediamo il protagonista, inquadrato con camera fissa, a colloquio con qualcuno che ci rimane costantemente invisibile, e di cui ascoltiamo solo le parole e i ragionamenti, kafkiani. Un potere che è invisibile perché tentacolare, molecolare, pervasivo, oppressivo.

Preciso e affilato in una scrittura fatta di dialoghi che ereditano la tradizione della poesia anche umoristica persiana, forte di interpretazioni naturaliste che non scadono mai nella macchietta o nello stereotipo, Kafka a Teheran manda il nostro sguardo, il nostro cervello e il nostro stomaco a sbattere con una certa qual garbata violenza contro il muro di gomma di un regime che assume aspetti implacabilmente orwelliani, lasciandoci a bocca aperta di fronte alla drammaticità di quello che racconta. Anche quando cala sulle sue microstorie un velo fatto di perfida e sofferta ironia, facendosi sorridere prima di soffrire.
Allo stesso tempo, oltre a far aprire ulteriormente gli occhi su quello che è l’Iran di oggi, Kafka a Teheran riesce a assumere una valenza che va oltre il locale. Perché l’assurdità del potere, il suo controllo sottile ma prevaricante, è qualcosa di cui – con forme e gradazioni diverse, e ovviamente non paragonabili a quelle iraniane – possiamo o potremmo avere a che fare molto più spesso di quanto non immaginiamo.

Comingsoon.it

Un film suddiviso in nove episodi di vita quotidiana a Teheran ognuno definito dal nome del protagonista. Si va da chi cerca un lavoro ma non conosce abbastanza il Corano a chi ha perso il cane contravvenendo alla legge. C’è la bambina che viene sempre più bardata (è il termine corretto) di abiti per tornare a scuola il primo giorno così come il regista che si deve veder approvato preventivamente il copione.

Ali Asgari e Alireza Khatami sono alla loro prima prova insieme e probabilmente si sono divisi gli episodi da girare in questo puzzle i cui pezzi, una volta composti, offrono un quadro forse più agghiacciante di quanto ci si potesse attendere. Perché siamo tutti purtroppo a conoscenza di quanto recentemente accaduto in Iran con atti di repressione violenta ma è la capillare presenza in ogni risvolto della vita quotidiana che offre in misura ancora più forte il senso di uno stato teocratico che si infiltra nel vissuto dei propri cittadini.
Si sorride anche in questo film ma lo si fa con grande amarezza. Perché non si può non sorridere dinanzi al giovane uomo che cerca un posto da autista e si deve semi spogliare perché chi lo interroga è venuto a conoscenza del fatto che ha dei tatuaggi (per di più di versi di un poeta famoso ma sul tema dell’alcolismo). Ma il sorriso si spegne subito perché la struttura degli episodi ci ricorda il metodo dell’inquisizione applicato in misura solo apparentemente soft. Chi pone domande o dà disposizioni non viene mai mostrato assumendo il ruolo di rappresentante del Potere in una molteplicità di versioni.
La madre che impone progressivamente alla figlia, che vorrebbe andare a scuola con jeans e t-shirt, una serie di indumenti che la coprono sempre di più non è poi tanto diversa dal funzionario che pretende da un uomo che chiede semplicemente un lavoro la conoscenza a memoria di sure del Corano o dal censore che vuole stravolgere il copione che gli è stato sottoposto ritenendolo non adatto e non rispettoso dei dettami imposti dallo Stato.
I due registi hanno fatto un lavoro di resistenza civile che deve essere costato non poca fatica, espedienti e rischi e che non avrà spazio di visione in Iran. Perché questo è un cinema di denuncia sociale che, con grande semplicità di mezzi e con un approccio estremamente diretto alla realtà, sa comunicare con efficacia il proprio grido di ribellione molto più di altre opere formalmente elaborate ma distanti anni luce da una fruizione non intellettualisticamente di nicchia.

Mymovies.it

Un film drammatico e coraggioso che pare impensabile sia riuscito a valicare i confini del proprio paese di produzione e origine, noto per prendere di mira artisti e registi promotori di pubbliche accuse contro l’operato e i divieti imposti dal regime.

Nella capitale iraniana dei nostri giorni non è permesso chiamare il proprio figlio David perché il nome non rientra nella casistica della cultura e religione iraniana; non è possibile tatuarsi il corpo con tratti o disegni indelebili perché si profana un’opera di Dio; non si può tenere in casa un cane perché è un animale impuro: meglio sostituirlo con una coppia di canarini.
Non si può evitare di indossare un costume coprente da capo a piedi anche se si è una bambina di nemmeno cinque anni e si preferisce indossare comodi jeans. Per dieci situazioni, dieci cittadini iraniani si vedono privare dell’autorizzazione di comportamenti che il regime considera non appropriati, o inevitabilmente fuori legge.
Come derivante da una punizione divina più che comprensibile nei confronti di chi detta legge e impone veti, una forte scossa di terremoto dalle conseguenze catastrofiche arriva alla fine a risolvere tutte queste situazioni legate alla ottusità umana e all’ignoranza che ne genera il diffondersi dilagante.
Attraverso una telecamera fissa su dieci personaggi, vittime di un regime dalle regole di comportamento al limite dell’assurdo, i due registi iraniani Ali Asgari e Alireza Khatami si dividono coraggiosamente le riprese che intendono denunciare i soprusi e gli odiosi divieti a cui sono sottoposti i cittadini iraniani durante altrettanti episodi del loro quotidiano vivere in società.
Alla maniera del maestro Kiarostami, la camera inquadra direttamente la vittima di una precisa disposizione e la riprende mentre si affanna a far valere, convinta, la propria idea, vessata da disposizioni che oltrepassano l’assurdo e talvolta sconfinano nel grottesco.
Dieci brevi episodi da sette minuti ciascuno che costituiscono un coraggioso monito di due cineasti-eroi, impegnati a tener testa a un regime che, come la cronaca tristemente insegna, ha già intrapreso azioni dittatoriali nei confronti di paladini del libero pensiero, come Jafar Panahi e altri grandi personaggi simili.
Nell’ambito del Certain Regard di Cannes 76, Terrestrial Verses appare una delle opere più urgenti, capaci di scuotere l’ottusità e la paralisi di pensiero che l’attuale regime di molti paesi orientali impone alla propria popolazione.

Filmtv.it