La moglie di Tchaikovsky

Kirill Serebrennikov

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Nella seconda metà del XIX secolo nella Russia ancora imperiale e in un'epoca dove le donne vengono concepite ancora come proprietà dei mariti, si consuma la tumultuosa relazione tra uno dei maggiori compositori russi, Pyotr Tchaikovsky, e sua moglie Antonina Miliukova, aspirante musicista. I due sono stati marito e moglie dal 1877 fino alla morte del compositore, avvenuta nel 1893, e durante tutto il matrimonio Antonina non ha mai accettato l'omosessualità del marito, finendo per perdere con il tempo il senno.
DATI TECNICI
Regia
Kirill Serebrennikov
Interpreti
Alyona Mikhailova, Miron Fedorov, Odin Lund Biron, Filipp Avdeev, Ekaterina Ermishina, Andrey Burkovskiy, Nikita Elenev, Natalya Pavlenkova, Aleksandr Gorchilin, Varvara Shmykova, Vladimir Mishukov, Viktor Khorinyak, Yuliya Aug
Durata
143 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Kirill Serebrennikov
Fotografia
Vladislav Opelyants
Montaggio
Yuriy Karikh
Musiche
Daniil Orlov
Distribuzione
Arthouse di I Wonder Pictures
Nazionalità
Russia, Francia, Svizzera
Anno
2022

Presentazione e critica

Il 18 luglio 1877 Pëtr Il’ic Tchaikovsky sposa Antonina Ivanovna Miljukova, una sua ex allieva di cui aveva perso il ricordo, che gli aveva scritto una lettera appassionata dichiarandogli il suo amore. Con questo matrimonio il noto compositore compie un tentativo per negare a se stesso la propria omosessualità. Si tratterà di un totale fallimento che viene letto attraverso la vicenda della donna la quale non rinuncerà mai all’idea di considerare Pëtr come il proprio uomo.

La vita e la sessualità di un grande compositore di musica classica lette attraverso lo sguardo della legittima consorte il cui amore si trasforma progressivamente in ossessione. L’argomento era già universalmente noto e il cinema se ne era già appropriato grazie alla lettura, come sempre dissacrante e talvolta rutilante, di Ken Russell in L’altra faccia dell’amore dove però lo si affrontava guardando all’aspetto biografico del musicista. Serebrennikov invece ribalta la prospettiva ed assume il punto di vista di lei, di Antonina, prendendo le mosse dalla camera mortuaria del compositore a cui lei si presenta come visitatrice decisamente indesiderata.

La relazione tra i due non è limitata ad un’illusione di ‘redenzione’ del coniuge da parte della consorte ma entra a far parte direttamente della creazione di un’opera, l”Evgenij Onegin”, a cui Cajkovskij stava lavorando. Di fronte alla dichiarazione passionale avrebbe ceduto perché altrimenti si sarebbe sentito di comportarsi peggio del suo personaggio “un bellimbusto freddo e privo di cuore” come scrisse ad un amico. Antonina lo sposa divenendo di fatto una sua proprietà ma anche rifiutando, quando la situazione precipita e la repulsione di lui nei suoi confronti si fa esplicita, di divorziare. Serebrennikov non solo ci mette di fronte alla vita e ai sentimenti di una donna che all’epoca (e sembra dirci forse anche oggi) non contavano granché visto il suo ruolo subalterno nella società. Fa di più già solo nello scegliere l’argomento. Tutti abbiamo ben presenti le dichiarazioni omofobe del patriarca di Mosca Kirill che ha accomunato il tentativo di occupazione dell’Ucraina alla crociata contro i gay e, nello specifico, contro i gay pride che secondo lui l’Occidente sosteneva in quel Paese.

Ecco allora che un regista coraggioso ricorda ai russi (se mai potranno vedere il suo film) che uno dei geni della storia della musica classica, un russo doc, era gay e questa sua scelta in campo sessuale non gli ha impedito, come la propaganda putiniana vorrebbe, di scrivere opere immortali. Il regista non giudica né lui né la consorte. Se a lui imputa la facile soluzione di voler risolvere un legame pagando una sorta di rendita mensile a lei non risparmia la caduta in una progressiva ossessione che non esclude momenti di degrado. Tutto questo in un film biografico che non si sottrae al melodramma ma che non perde mai di vista, anche quando eccede, la lettura di una società fondamentalmente misogina in cui l’affermazione dei diritti di una donna nella vita di coppia passa attraverso il dolore e la frustrazione.

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Con un velo davanti agli occhi. Ci viene presentata così Antonina Miliukova. Vestita a lutto per un funerale che potrebbe essere il suo, morta dentro da tanto (troppo) tempo. Un velo che la donna non si toglierà mai, perché il suo sguardo sarà sempre coperto da qualcosa dall’inizio alla fine. Una condanna quasi autoinflitta, perché in tanti hanno avvisato la giovane Antonina del dramma a cui stava andando incontro: sposare Pyotr Tchaikovsky, il geniale compositore dall’anima inquieta e dal cuore in tumulto. Più forte di qualsiasi timore, la protagonista assoluta di Tchaikovsky’s Wife procede imperterrita verso il suo muro del pianto, legandosi a un marito che non la amerà mai. Nemmeno per un attimo. È a questa figura tragica che il regista russo dedica un’opera piena di angoscia, perfetto ritratto di un amore tossico e lacerante.

C’è un altro dettaglio ricorrente che rimane impresso almeno quanto il velo sul volto di Antonina. Quello di una mosca invadente che si sente spesso in sottofondo. Un’interferenza fastidiosa che incombe nel film, spesso invisibile ma ben presente con il suo ronzio. Sembra quasi un presagio, la promessa di qualcosa di sporco e spiacevole che sta per capitare. Promessa mantenuta sin da subito, perché Tchaikovsky’s Wife non fa trasparire un briciolo di speranza, mai un barlume di felicità, seppur illusoria. Perché sotto c’è sempre quel ronzio, anche quando tutto sembra andare per il meglio. Anche quando al centro del film ci sono gli occhi grandi e vitali di Antonina (interpretata dall’intensa Alyona Mikhaylova). Giovane bellissima, piena di sogni pronti a trasformarsi in lunghi incubi. Succede quando la donna, appassionata di musica, incontra il mitico Pyotr Tchaikovsky, musicista idolatrato dal pubblico e da Antonina, che se ne innamora perdutamente. E per le donne del tempo, incastrate nei doveri e nei ruoli della Russia di fine Ottocento, il matrimonio era una prospettiva migliore di qualsiasi carriera. Un amore talmente cieco da negare l’evidenza, perché suo marito l’ha sposata solo per coprire la sua omosessualità da negare dietro una patina di normalità. Una normalità che Serebrennikov nega di continuo, cospargendo il film di continui malumori, malesseri ed elementi stranianti che stridono con qualsiasi abitudine borghese. Tutto il film è un enorme sforzo: la fatica di una donna che prova ad aggrapparsi al tipico ritratto familiare con le unghie e con i denti, diventando succube delle sue stesse ossessioni. Come dentro una sorta di ritratto di Dorian Gray al contrario, la fotografia ideale di Antonina e Pytor rimarrà intatta, pronta a sopravvivere nella storia, mentre questa sposa infelice cade lentamente in un vortice di ostinazione perversa.

Se abbiamo parlato di vortice è perché la regia raffinatissima di Serebrennikov avvolge Antonina dall’inizio alla fine (anche grazie a un paio di piani-sequenza straordinari). La macchina da presa le sta addosso come suo marito non farà mai, provando quasi a ricreare quell’intimità che il matrimonio le ha sottratto. Girare in tondo, però, significa anche scendere negli inferi poco per volta, passo dopo passo, nota dopo nota. Una disperazione che Tchaikovsky’s Wife ti fa avvertire di continuo, portando il pubblico a dannarsi l’anima a suon di martellanti perché. Perché una donna mai amata ama così disperatamente? E soprattutto: è davvero amore quello di Antonina. Domande che il film lascia in sospeso, senza mai giudicare. Serebrennikov preferisce affidarsi alle sensazioni e alle atmosfere squallide di quella Russia di fine Ottocento così fetida e rigida. All’interno di questa gabbia mentale e sentimentale, Antonina si dimena senza avere mai via di uscita. Un personaggio contradditorio, vittima e carnefice di sé stessa, da una parte vulnerabile dall’altra dotata di una caparbia invidiabile. È lei la grande anima in pena al centro di un film molto sensoriale e carnale, pieno di fango, sudore, corpi da toccare, annusare e non baciare mai davvero. Perché in mezzo c’è sempre quel velo: l’amore che ti fa vedere le cose come vorresti tu. O forse l’ossessione che trasforma tutto in velata pazzia.

 

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Il film vuole raccontare Antonina, relegando il suo oggetto del desiderio a ciò che effettivamente era. Come spesso accade, si decide di partire dalla fine per poi riappacificarsi subito con l’ordine degli eventi. Qui, in una scena grottesca nella sua teatralità, la donna si reca alle esequie del marito e, una volta entrata, la salma di Tchaikovsky si rianima e scende faticosamente dal feretro solo per ribadirle di non averla mai amata. Sintesi ancor prima di una tesi e di un’antitesi, per quella che sarà una lunga traversata sull’ossessione di una donna nei confronti di un uomo che non voleva e non poteva corrisponderla. La Miljukova è messa in scena in modo magistrale da Alyona Mikhailova, una presenza che costantemente comunica il dramma del personaggio, passando da una trasognata allegria a una sconvolta e rabbiosa reazione ai fatti. È una prova fisica, la sua: sensuale e deleteria, disperatamente ostinata. L’abbandono, che darà il via alla reazione a catena interiore ed esteriore, è vissuto sulla fredda assenza del compositore che, va ancora chiarito, non sarà mai giudicata come ci si aspetterebbe. Il messaggio, per così dire, è molto più velato nel suo intendere la condizione femminile, ancorata alla controparte in un legame istituzionale che di fatto costituiva (e costituisce tuttora) l’identità stessa: il titolo, da questo punto di vista, è ancor di più una dichiarazione d’intenti. Ma Serebrennikov, nel suo seguire il personaggio, ci mostra anche una Mosca dove imbellettati borghesi attraversano le strade fangose in cui stazionano gli ultimi della società, quasi a comunicare il facile cambiamento di status in una società che si regge sul potere e sulla fama. Ci mostra anche i sordidi interni di una classe bene che, sotto la maschera della rispettabilità, è convinta di comprare tutto con il denaro e la corruzione. Antonina, però, non è una sovvertitrice del sistema, non è un simbolo femminista, ma un’altra testimonianza di sottomissione ed idolatria. L’unica apparente reazione, passionale e cinica, si rivela presto indirizzata al sentimento di proprietà dell’uomo verso la donna e viceversa. Un sogno, come l’ultimo che fa Antonina in un paesaggio innevato e di un bianco accecante, interrotto dalla potenza e prepotenza del Fato, sempre che di esso si possa parlare con certezza.

 

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