Pupi Avati
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Presentazione e critica
Forme colmabili e forme incolmabili, utopie e canzoni dimenticate, la vita che cambia senza che cambi davvero nulla. Pupi Avati frulla cinema e musica in un film che esalta tanto la sceneggiatura quanto i riconoscibili personaggi. Personaggi che si estendono e si allungano, in bilico tra passato e presente, segnati dall’amicizia e dall’amore. Perché, se di storia universale si tratta (pur agganciandosi agli aspetti biografici del regista), eccoci a seguire i sogni di gloria di Marzio (Lodo Guenzi) e Samuele (Nick Russo). Sono gli anni Sessanta, quelli della musica pian piano più leggera, e delle prime sfilate di moda. Vorrebbero andare a Sanremo, ma la realtà lascia poco spazio ai voli pindarici. Un’amicizia profonda, e poi l’amore ancora più profondo tra Marzio e Sandra (Camilla Ciraolo), meravigliosa e sfuggente ragazza di Bologna che, guarda caso, vorrebbe fare l’indossatrice, divincolandosi dagli archetipi femminili di un’epoca pura ma tradizionalista. La memoria narrativa, dunque, miscela passato e futuro, attraverso un montaggio incrociato, intanto che i colori mutano in base al tempo stesso: ritroveremo Marzia e Sandra (interpretati da Gabriele Lavia ed Edwige Fenech, in un’idea geniale di cast) alle prese con le rughe e i disastri, separati e poi ritrovati in nome di un destino spietato ma, in qualche modo, riparatore.
Se qualcuno tenesse il conto di tutto il tempo che passiamo rintanandoci nei ricordi, si arriverebbe probabilmente ad un numero astronomico. Ricucendo le immagini sbiadite di un’epoca che non torna, è come se in qualche modo stessimo forzando la memoria stessa, brutalizzandola in funzione di un presente che non soddisfa, ma che anzi aumenta il divario tra ciò che era e ciò che è stato. Sotto forma di malinconia, resa limpida arte narrativa, Pupi Avati delinea quello che potrebbe essere uno dei suoi film più amari, confidenziali e sinceri, sferzato però da una leggerissima dolcezza, tanto da rendere udibile il battito concitato e poi rilassato delle immagini. Dolce, amaro e gustosamente ingenuo, La quattordicesima domenica del tempo ordinario è cinema d’altra epoca – sembra di vedere un film degli anni Sessanta -, che per Avati coincide con la liturgia primaverile ed estiva che, sessant’anni fa, si sovrapponeva con la stagione dei matrimoni.
In un modo o nell’altro, Avati racconta molto di sé, del suo amore e della rincorsa verso quella che idealmente era la ragazza più bella di Bologna, poi sposata il 24 giugno del 1964. Perché la vicenda cinematografica si confonderà con il passato dell’autore, che per dichiarazione confonde in modo ammirevole la realtà con la finzione. Su questa strada, appare ideato La quattordicesima domenica del tempo ordinario, colmo di “cose” e colmo di “momenti”, suddiviso in due fasi distinte che, tra ieri e oggi, si ricollegheranno in un gioco di dettagli, senza autocompiacimento ma, schiettamente, sottolineando i nostri fallimenti, in correlazione dei nostri sogni primordiali. Primordiali e traditi dalla rassicurazione a cui possiamo ambire, trasformando quel tempo straordinario in tempo – appunto – ordinario.
La quattordicesima domenica del tempo ordinario è un film di affetti, di amori ammaccati e di possibilità sfuggenti. Cinema artigiano, quello di Avati, che dichiara palesemente il suo sistema cinema settato verso quello che potrebbe sembrare anacronistico (alcune scelte visive, nonché di montaggio, appartengono al remoto) ma che, preziosamente, risulta efficace nello sguardo del regista. Sembra un dettaglio minimo, tuttavia la caratteristica è ideale per la leggerezza e la delicatezza del cinema di Pupi Avati che, con coraggio, presuppone le parole alla tecnica, facendoci percepire tanto le emozioni quanto le palesi lacrime finte degli interpreti. Perché la cosa importante (e come dargli torto?) sarà poi concentrarsi sulla soggettività della storia, che mette in evidenza quanto tutti (nessuno escluso) siano in qualche modo vittime dei propri sogni e delle proprie scelte, tirando di conseguenza fuori una disarmante delusione scaturita dall’oppiacea nostalgia.
La stessa finissima nostalgia che, complici i tempi oscuri (o il tempo che si restringe?), tende ad alterare la percezione che si dovrebbe avere del futuro. Magicamente, tra i cambi di inquadratura, i primi piani stretti e i dialoghi ballerini, La quattordicesima domenica del tempo ordinario è un film che ci tiene a non lasciare solo lo spettatore, senza che lo spettatore si ponga dei problemi verso quelle macro-storture della scena (Un esempio? I figuranti…) appartenenti, guarda caso, ad un cinema d’altri tempi, d’altri modi e d’altri concetti. Come Marzio e Sandra, raffigurazioni di un’Italia che stava cambiando, eccoci allora oltre i confini dei sogni infranti e delle fotografie dimenticate, scegliendo il cuore invece che la perfezione. Per questo, con un pizzico di presunzione, Pupi Avati continua a raccontare la vita. La sua, e anche un po’ la nostra.
In conferenza stampa Avati ha definito La quattordicesima domenica del tempo ordinario come il suo film più personale e autobiografico, e guardandolo non si fa fatica a capire il perché. In questa sua 43esima pellicola c’è un po’ tutta la summa dei temi, delle ossessioni e dei mondi del regista bolognese stavolta però declinati con una maggiore cupezza, che è sempre stata anche fin troppo nelle corde di Avati. Ne La quattordicesima domenica del tempo ordinario Avati si guarda indietro, fa una sorta di recap della propria vita e dei propri errori giovanili e non solo, cerca di scavare nel passato per capire meglio il presente o forse per dargli una forma più definita. Le parabole di Marzio, Samuele e Sandra viaggiano accavallate tra il mito degli anni ’60 e il mondo di oggi, all’apparenza più grigio e aspro anche nei colori ma forse solo più sincero; con coraggio, ma anche forse con una certa ingenuità soprattutto per quanto riguarda gli aspetti più tecnici di montaggio e regia, Pupi Avati affronta di petto il fallimento dei suoi personaggi e con loro il fallimento di un’intera epoca, solo che la potenza insita in questa presa di posizione rimane sempre accennata perché sotterrata da una certa pragmaticità nello sguardo. Avati si lascia andare al melodramma ma dimentica di raccontarci la tragedia in un sogno che si spezza, la portata mastodontica che un evento del genero ha nelle vite dei suoi protagonisti.
Quando La quattordicesima domenica del tempo ordinario sembra funzionare meglio è proprio nel momento in cui Avati si abbandona completamente alla sua storia, magari lasciandola anche un po’ scappare via, perché è in quel momento che subentra un po’ di sana leggerezza. Merito di una meravigliosa Edwige Fenech, la cui Sandra riesce a trasmettere sentimenti sempre contrastanti ma mai contraddittori, tra vita e dolore, amore e speranza, alla ricerca del cuore di una donna che ha trascorso tutta la propria vita rincorrendo un sogno spezzato e che ora si trova a fare i conti con l’amarezza della disillusione. Un po’ quello che accade anche al Marzio di un altrettanto splendido Gabriele Lavia, e non è un caso se forse La quattordicesima domenica del tempo ordinario riesce a colpire davvero quando il focus rimane nel presente e si sposta dal passato. Non perché gli interpreti della linea del passato non siano all’altezza o per via di problemi specifici nella scrittura, ma per un’incapacità di Avati di fare i conti con la straordinarietà dell’ordinarietà delle nostre vite. Nonostante un primo atto troppo appesantito dal dramma e dalla morte, La quattordicesima domenica del tempo ordinario sembra poter riprendere fiato proprio nella linea che racconta la nostra contemporaneità e che quindi, a giochi fatti, si ritrova a dover fare i conti con ciò che eravamo, ciò che volevamo e ciò che non siamo riusciti ad essere.
Nel raccontare un’Italia che continua a cambiare con i suoi personaggi, Avati cerca allora il senso del tempo e si insinua nelle sue pieghe, a caccia di un motivo ormai sbiadito e lontano che possa dare senso a tutti i nostri errori. La quattordicesima domenica del tempo ordinario è allora, prima di tutto, un film sul dover accettare il tempo e le cose perdute, sul lasciare andare i rimpianti e gli amori impossibili, sul doversi interrogare senza colpevolizzarsi. Poste che la volontà, l’onestà e la forza nel volersi svelare di Pupi Avati siano encomiabili e non possano essere messe in discussione, si deve però ragionare su come alcune scelte di scrittura e di messa in scena abbiano penalizzato un film tanto sincero sulla carta quanto artefatto sullo schermo. L’impressione è che Avati avrebbe potuto e forse dovuto rinunciare a certi stilemi del proprio cinema e di tanto altro cinema italiano per abbracciare con più coraggio la contemporaneità stilistica ed espressiva, mantenendo però il suo innato sguardo per i suoi personaggi rotti dal destino e dal tempo, che cercano e alle volte trovano un barlume di agognata felicità.