Le mie poesie non cambieranno il mondo

Francesco Piccolo, Annalena Benini

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Documentario sulla poetessa Patrizia Cavalli, venuta a mancare il 21 giugno 2022. Si cerca di delineare il ritratto dell'autrice considerata la Signora della poesia italiana contemporanea, nonché una vera e propria icona pop odierna. Il film ripercorre la vita di una donna molto libera, bisognosa del suo pubblico e poco incline alla solitudine, trasmettendo la sensualità, il calore e la libertà delle poesie della Cavalli, ripercorrendo l'esperienza della sua ispirazione e quello che lei ha avvertito come il senso profondo della vita.
DATI TECNICI
Regia
Francesco Piccolo, Annalena Benini
Durata
77 min.
Genere
Documentario
Distribuzione
Fandango
Nazionalità
Italia
Anno
2023

Presentazione e critica

Roma, Trastevere. Gli scrittori Annalena Benini e Francesco Piccolo sono a casa dell’amica poeta Patrizia Cavalli per coinvolgerla in un film che la riguardi (la stessa casa filmata da Céline Sciamma nel cortometraggio This Is How a Child Becomes a Poet, presentato ugualmente in Giornate degli Autori 2023). Il tempo incalza, il taglio di capelli – che nelle foto di lei da ragazza sono lunghi e lisci – dichiara una malattia in corso. Lei accetta la proposta di “costruire andando”, cioè di non procedere ordinatamente: non fa parte della sua natura.
Andrà proprio così: a volte restando in campo, anche solo con l’audio, ma per la maggior parte del tempo rimanendone fuori, gli autori, disinteressati a un profilo celebrativo canonico o all’ennesimo coro unanime di lodi, si mettono a sua totale disposizione, catturandone la naturalezza davanti alla macchina da presa.
Il suo monologare ha teatralità, un tono divertito e divertente, lampi di vanità e molto understatement. Senza reticenze, con una nonchalance solo apparente e un linguaggio non aulico ma ricercato. L’esattezza con cui si esprime, senza un errore, un ripensamento, un’incertezza, dice tutto del suo status letterario, almeno quanto l’iniziale dichiarazione di fiducia nelle parole.
Cavalli (“come horses!”, disse presentandosi a Diane Kelder, futura compagna statunitense di una vita) segue le regole di libertà che ha deciso per sé stessa. Anche quella di contestare i registi, di sottrarsi a delle definizioni o all’elogio da circolo intellettuale. Se l’amica Elsa Morante – decisiva per la pubblicazione della sua prima raccolta, che dà anche il titolo al film – la laureò poeta (non poetessa) insistendo per conoscerla attraverso la lettura dei suoi versi, allora qui Cavalli si racconta quasi sempre parlando di altro da sé: gli incontri, l’amore e la sua semiotica, tra alto e quotidiano, il gioco, la curiosità per la vita, mai distinta da una pigrizia leggendaria: solo cinque le raccolte di poesie, più uno di prose, in circa cinque decenni di attività, dopo avere, come molti spiriti liberi, abbandonato presto la nativa Todi e scelto Roma per un’emancipazione fatta di grandi esitazioni, palpitazioni, goffaggini, solitudini, slanci.
Nel flusso della conversazione scivolano selezionate perle d’archivio: tra le letture pubbliche, apre Se ora tu bussassi alla mia porta (da Poesie 1974-1992) e tra le rare apparizioni, il cameo nel ruolo di studentessa universitaria in Discutiamo, discutiamo, episodio di Marco Bellocchio nel film collettivo Amore e rabbia (1969).
In parallelo corre un filo rosso canoro, anche grazie al a libro/cd realizzato nel 2012 con Diana Tejera (Al cuore fa bene far le scale, Voland). A ribadire che il potere taumaturgico del verso scritto, mai declamato, è equivalente a quel tipo di espressione vocale. Un film fatto tra amici, un gesto di altruismo dedicato a chi non l’ha potuta conoscere e da oggi ha una nuova amica: magnetica, spietata, irresistibile.

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Ma sì che le sue poesie hanno cambiato il mondo, certo. Lo sapeva lei e lo sa chiunque abbia letto i suoi versi e quelli come i suoi, capaci di sovvertire l’ordine di fenomeni ed epifenomeni che continuiamo a conoscere solo attraverso il linguaggio. E sono proprio le parole della “poeta” Patrizia Cavalli, definizione della sua mentore Elsa Morante che rifiutava la desinenza femminile in essa – chissà se oggi questa battaglia sarebbe considerata di retroguardia – ad accompagnare lo spettatore dentro questo inusuale Le mie poesie non cambieranno il mondo, diretto dagli scrittori Francesco Piccolo e Annalena Benini. Un documentario che se non fosse per l’immancabile e doverosa parte d’archivio sarebbe arduo definire tale perché più attinente ad una conversazione intima, quasi cursoria ma certamente eterodiretta (la formalità di molte domande, la ritualità delle chiacchiere a tavola, il pedinamento fuori la casa di Trastevere) dai due registi mossi da un affetto e da una devozione artistica fin troppo palpabili. Le mie poesie non cambieranno il mondo opera da subito una netta contrapposizione tra i due reading con cui il lungometraggio si apre e le immagini, garbate ma pur sempre dolorosissime, dell’artista di Todi, oramai quasi calva e ancor più minuta, in procinto di dipingersi con finta civetteria le rade soppracciglia. Come un’eco che si dipana nei decenni ecco allora che anche nelle asperità del presente s’avvertono i suoni del passato, in particolare della bellissima seconda lettura/performance in cui con la solita voce carica di terribile indolenza Cavalli così chiosava la fine di una relazione: “Tu te ne vai e mentre te ne vai mi dici: mi dispiace. Pensi così di darmi un po’ di pace, mi prometti un pensiero costante e struggente, quando sei sola e anche tra la gente. Mi dici: amore mio, mi mancherai. Ti avrò sempre presente, avrò il pensiero pieno del tuo niente“.

Queste suggestioni sono però la cifra esclusiva di una prima parte che sembra subire il peso dell’importanza del soggetto trattato. Come se fossero di fronte al compito di redigere un Meridiano Mondadori cinematografico, Piccolo e Benini a più riprese fanno il periplo dell’accademismo – le letture dei versi più famosi, le richieste biografiche, le sortite di Cavalli nella musica – ma allo stesso tempo espungono qualunque voce esterna, controcanto o semplicemente altro canto che sia. Il documentario sceglie di non intervistare critici letterari, amici/amiche (tranne una, ci torneremo), amanti o collaboratori mettendo al centro della scena soltanto le discussioni avute poco prima della sua morte con una Patrizia Cavalli malata nel corpo ma soprattutto stanca nell’anima, quasi felice di potersi abbandonare con cognizione salutare alla proverbiale pigrizia che l’ha accompagnata per tutta la vita e la produzione poetica. In questo modo allora la continuamente evocata passione delle miriadi di relazioni sbagliate vissute da Cavalli resta sempre un flusso verbale fantasmatico, un residuato mnemonico senza spazio e tempo – chi e quando è stato amato dalla poetessa? Che ne è di questi simboli carnali? – che trova soltanto nella conversazione con Diane Kelder, la professoressa d’arte che le è stata compagna a lungo, l’unico straordinario punto di rottura. Qui l’anziana poetessa per un attimo ritrova la brillantezza intellettuale che l’ha sempre contraddistinta rifiutando di stare al banale gioco dell’intervista doppia e rivendicando la singolarità della sua visione “mitica” che non ha bisogno di essere mitigata/corretta/emendata dalla stupida realtà. Da questa scena in poi Le mie poesie non cambieranno il mondo sembra prendere atto dell’impossibilità di diventare un bignami culturale della produzione poetica di Patrizia Cavalli e accetta serenamente di essere una sbalestrata passeggiata – colpa del lordo selciato di Roma continuamente e giustamente bistrattato? – tra i viali scoloriti della sua passata grandezza. Ci si muove sempre più a fatica, in alcuni casi si perde perfino l’orientamento (la rivendicazione morale della ludopatia) ma è dolcissimo farlo, come nel caso della performance con Diana Tejera in cui Cavalli suona lo xilofono con la tenerezza e l’asincronicità coltissima dei suoi versi migliori.

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