Le otto montagne

Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch

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Due attori impegnati a dar vita a due personaggi calati in un ambiente naturale ed identitario molto definito che li obbliga a lasciarsi alle spalle gli accenti e le inflessioni con cui il grande pubblico li ha conosciuti.
DATI TECNICI
Regia
Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch
Interpreti
Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Filippo Timi, Elena Lietti, Elisabetta Mazzullo
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Charlotte Vandermeersch, Felix van Groeningen
Montaggio
Nico Leunen
Distribuzione
Vision Distribution
Nazionalità
Italia, Francia, Belgio
Anno
2022
Classificazione
Tutti

Presentazione e critica

Pietro, bambino torinese, va in vacanza con la madre in un paesino della Valle d’Aosta dove abita un solo bambino suo coetaneo, Bruno. I due divengono presto amici a tal punto che i genitori di Pietro sono disposti ad ospitare Bruno per farlo studiare in città. Il padre però non è d’accordo e il bambino diventerà un ragazzo e un uomo che non lascerà mai la montagna. I due però continueranno ad incontrarsi e ristruttureranno insieme una baita prima che Pietro inizi poi a viaggiare nel mondo.

Due attori impegnati a dar vita a due personaggi calati in un ambiente naturale ed identitario molto definito che li obbliga a lasciarsi alle spalle gli accenti e le inflessioni con cui il grande pubblico li ha conosciuti. La coppia Van Groenigen e Vandermeersch, nell’adattare il romanzo omonimo del Premio Strega Paolo Cognetti, sorprende lo spettatore sin da quando si spengono le luci in sala. Hanno infatti deciso di adottare un formato di proiezione ristretto che ricorda un po’ i documentari di montagna di un tempo che fu quando, per avere un’attrezzatura leggera al seguito, si girava in 16 millimetri.

Da tempo ormai le cime, innevate e non, si vedono offrire tutta l’ampiezza dello schermo che fa risaltare la loro imponenza. Qui invece l’impressione che si ha da subito, grazie anche alla voce narrante, è quella della descrizione della nascita e dell’evoluzione di un’amicizia a cui le montagne fanno non da sfondo ma da elemento fondamentale di unione che diviene, ad un certo punto, divaricazione.

Si tratta dell’incontro tra due visioni della vita che l’ambiente naturale finisce con il determinare in modo quasi cogente. Per Pietro, che ha un padre (ingegnere in una fabbrica con 10.000 persone, come lui stesso ci tiene a sottolineare da bambino) la passione per la montagna viene trasmessa come amore per un luogo a cui giungere ma dal quale poter anche ripartire. Bruno invece è ancorato a quelle pietre, a quegli animali considerati come elementi fondamentali di un mondo che non riesce e non vuole lasciare. Anche quando troverà l’amore il richiamo della montagna resterà sempre dominante spingendolo verso scelte non facili per lui e per gli altri. Marinelli e Borghi riescono ad offrire ad entrambi questi caratteri una verosimiglianza che vede, ancora una volta, il secondo lavorare molto anche sull’aspetto fisico.

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(…) Quando Pietro, ormai trentenne, decide di iniziare a viaggiare, ascolta in Nepal la storia delle otto montagne, ossia la terra concepita come un cerchio diviso in otto spicchi, con un centro: sono le otto montagne e rappresentano il mondo, mentre il centro è quell’unica montagna che domina il tutto, ma che forse pur dominando, comunque ci relega in una visione un po’ limitata del restante spazio a disposizione. Ed è qui che è racchiusa la differenza fra Pietro e Bruno, il primo inizialmente chiuso e bloccato ma presto capace di prendere il largo, l’altro legato inesorabilmente alle montagne da cui proviene e a cui è stato relegato fin da bambino.

Le Otto montagne racconta dunque un’amicizia profonda proprio in virtù delle differenze fra i due protagonisti, che seguiamo fin da bambini; una storia narrata con un andamento che ha il tono calmo del procedere letterario, e che verso la fine, va detto, perde un po’ di mordente, restituendoci un’ultima parte un po’ sbiadita, come priva dell’intensità giusta. Ma ci si può passare sopra, perché è comunque un film di immagini accorte questo di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, attente alla terra, racchiusa in un formato che fa pensare alle vecchie diapositive, o che nella cura della luce ci ricorda i bei versi sulle montagne della giovane Antonia Pozzi. Ai due registi va riconosciuta la premura nel riprendere lo spazio, la capacità di restituirne la durezza e i cambi di umore, quando dal rigido inverno si passa all’estate, in un tempo scandito chiaramente dalla lucidità delle montagne. E questa meticolosità sembra quasi voler parafrasare quello che ad un certo punto Bruno spiega agli amici di città di Pietro, e cioè che il termine natura è un termine terribilmente vago, utilizzato dai cittadini, che ne hanno un’idea solo astratta. Quest’ultima è invece complessa, ogni elemento ha un suo nome preciso, che sia in dialetto o no (una particolare nota di merito va a Borghi e alla sua parlata in patois valdostano) che sia cima, o pietra, torrente, foglia, sterpo o roccia.

 

Sentieriselvaggi

(…) L’universo naturale in cui i personaggi si muovono è capace di evocare in loro (e di conseguenza nello spettatore) un’infinità di emozioni: dal senso di appartenenza allo straniamento, dalla gioia incontrollata alla paura, dalla nostalgia e dal senso di colpa fino al bisogno di trovare se stessi, che sia per la prima volta o che si tratti di confermare certezze che già si conoscono. Il film tratto dal romanzo omonimo di Paolo Cognetti, vincitore del premio Strega, è intenso e toccante, e chi guarda viene inevitabilmente rapito da un mondo, quello dei montanari valdostani, fatto di cose semplici, di lavoro manuale e di un amore sconfinato per quella che solo noi “cittadini” definiamo “natura”, ma che per loro sono i ruscelli, i sentieri, i boschi, insomma la cornice di tutta la loro esistenza.

(…) Se il cuore di questa storia è la grande amicizia tra i due protagonisti, l’input narrativo viene dato dal rapporto con la figura paterna, conflittuale nel caso di Pietro, salvifico in quello di Bruno, che era stato abbandonato dal padre biologico. Le montagne in cui gran parte della vicenda si svolge rappresentano quindi le radici che i due uomini, diventando adulti, non recidono mai con il proprio passato. Pietro dovrà compiere infatti un faticoso percorso interiore per capire veramente chi vuole essere nella vita, trovando un equilibrio nel ricordo del padre – quello di “città” e quello di “montagna” – e riscoprendo in maniera completamente nuova il rapporto che aveva con lui. Bruno, da parte sua, arriverà invece alla conclusione che non c’è vita per lui al di fuori di quelle montagne, che un’esistenza solitaria, segnata dalle intemperie ma dal frutto del suo lavoro manuale, è l’unica che gli dà veramente gioia. Assolutamente perfetti nei ruoli Luca Marinelli e Alessandro Borghi, il primo capace di dar vita ad un’interpretazione intensa, intima e profondamente sincera, il secondo in grado di trasformarsi completamente, dalle movenze all’accento, in un personaggio burbero, rude, ma anche onesto e incredibilmente amorevole. Non possiamo però non citare il resto dell’ottimo cast, da Filippo Timi e Elena Lietti nei ruoli dei genitori di Pietro ai piccoli interpreti dei protagonisti, che nella parte ambientata durante la loro infanzia catturano per naturalezza ed intensità, riportandoci a quei momenti della vita in cui un’amicizia poteva diventare tutto il nostro mondo.

 

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