Manodopera

Alain Ughetto

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Miglior film d’animazione agli European Film Awards, 2022

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La storia vera di Cesira e Luigi, una coppia di emigranti italiani che negli anni ’20 fuggono la miseria delle vallate alpine italiane per fondare una famiglia in Francia. Il racconto necessario di quando eravamo noi quelli a cui era vietato l’ingresso.
DATI TECNICI
Regia
Alain Ughetto
Durata
70 min.
Genere
Animazione
Sceneggiatura
Alain Ughetto, Alexis Galmot, Anne Paschetta
Musiche
Nicola Piovani
Distribuzione
Lucky Red
Nazionalità
Francia, Italia, Svizzera, Portogallo
Anno
2022

Presentazione e critica

Ughettera alla fine dell’800. Lì vive la famiglia Ughetto che attraverserà, con la propria condizione di contadini ed operai, la prima metà del ‘900. Vivranno le guerre a cui gli uomini saranno chiamati e saranno costretti dalla povertà ad andare a cercare il lavoro dove c’è, cioè all’estero, dove però si trova anche la discriminazione per i ‘macaroni’. Quella che con un tono altisonante potrebbe definirsi la ‘saga’ degli Ughetto viene narrata con profonda dolcezza e partecipazione da un discendente.

La Borgata Ughettera non è un luogo immaginario. È una frazione di Giaveno a poca distanza da Torino ed ai piedi del Monviso. È lì che Alain Ughetto, nato a Lione, è tornato per iniziare a ricostruire le vicende che hanno visto come protagonisti i suoi antenati. Non solo la nonna, con la quale intreccia un dialogo ideale grazie alla calda voce di Ariane Ascaride, ma anche coloro che l’hanno preceduta.
Grazie all’utilizzo della stop motion e di pupazzi in plastilina alti 23 centimetri ha raccontato con dolcezza, ma anche con precisione storica, l’Italia di coloro che vennero definiti come gli ultimi. Di quelli cioè di cui lo Stato si ricordava quando doveva mandarli a morire nelle tante guerre che hanno costellato la prima metà del secolo scorso. Salvo poi non offrire loro altro che la strada dell’emigrazione. Un’emigrazione che li vedeva accogliere perché necessari e al contempo respingere con divieti come quello che compare nel titolo che il padre spiega ai figli con una pietosa bugia. Diventa allora indispensabile chiamare il luogo dove si vive ‘Paradiso’ per conservare almeno la speranza che lo divenga un giorno.
In un film dedicato allo scrittore partigiano e piemontese Nuto Revelli tornano alla mente le parole di un altro scrittore, lo svizzero Max Frisch che, nel momento di massimo afflusso di emigrati italiani nella sua patria, pronunciò una frase destinata a diventare un monito e un’occasione di profondo ripensamento: “Cercavamo braccia. Arrivarono persone”.
Persone e braccia che Ughetto sintetizza mostrando la propria mano in azione nel posizionare oggetti o disporre personaggi. Tante sono state le mani che, di generazione in generazione, hanno duramente lavorato in una sorta di passaggio di testimone. Il regista, tra l’altro, ci ricorda che la storia del lavoro già nel passato non era solo legata al mondo maschile. Quando gli uomini erano in guerra toccava alle donne fare anche i lavori più faticosi.
Un film come questo, grazie alla tecnica adottata e ai toni utilizzati, dovrebbe essere mostrato nella scuola dell’obbligo per ricordare a tutti, sin dalla più giovane età, che il passato del nostro Paese va conosciuto e non dimenticato. Anche e soprattutto quando si pronuncia con disprezzo la parola ‘migranti’.

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Manodopera è il viaggio di una vita, non solo dall’Italia alla Francia, per un uomo di nome Luigi. Vive a Ughettera ai piedi del Monviso in Piemonte, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: con i suoi fratelli, per la società lontana dal calore e dalla reciprocità del villaggio, è solo braccia. Per il lavoro nel traforo del Sempione, per i giorni da soldato nella guerra italo-turca e nella I Guerra Mondiale, accetta il suo destino, finché non decide che – per garantire a se stesso, ai figli e all’amata Cesira un’esistenza migliore – è arrivato il momento di trasferirsi in Francia.

Manodopera, opera seconda del regista francese Alain Ughetto, autore una decina di anni fa del diverso Jasmine, è un film di una leggerezza poetica disarmante: una pulizia assoluta di stile, intenti ed emozione regge la sua ora e dieci di durata, con un’animazione in stop-motion tanto precisa sul piano tecnico, quanto necessaria all’anima del racconto. Il fatto che gli avi dell’autore siano rappresentati con pupazzi consente a Ughetto di avvolgere vicende molto concrete e dolorose in un’aura fiabesca, ma guardando lo splendido risultato si realizza che lo scopo non è edulcorare il dramma e la sofferenza. Alain trova nell’animazione la forza che avevano i suoi nonni di proiettarsi oltre le fatiche, le malattie, lo sfruttamento, grazie a un calore ironico e affettuoso: Manodopera è una fiaba animata in stop-motion perché – sembra dirci Ughetto – è stata quella miscela di manualità e tenera poesia ad aver permesso a Luigi e a tutta la famiglia di rigenerarsi. L’animazione qui non è distacco, è al contrario contatto totale col materiale trattato.

Lo è in tutti i sensi, perché Alain Ughetto interagisce letteralmente con i pupazzi all’interno dei set: vediamo solo le sue mani o i suoi piedi, mentre invade gli ambienti in cui si muovono i personaggi, ambienti che peraltro – in un vero colpo di genio – denunciano il loro essere “finti”. Ma è una finzione così spudorata da compiere il giro largo e diventare più reale del reale: l’autore sa di aver ereditato da suo nonno e da suo padre la predisposizione al lavoro manuale che ha deciso di investire nell’animazione. Sentirlo interloquire con il pupazzo di sua nonna, mentre questa ricostruisce gli avvenimenti, è qualcosa di più di un abbattimento della quarta parete. Non è metalinguismo intellettuale o provocatorio: Ughetto non vede proprio la quarta parete, e cerca la verità dei suoi personaggi, dei ricordi e della storia (familiare e collettiva) nella loro rappresentazione, che vive come un atto d’amore.

Tutto questo fluisce in Manodopera con una tale naturalezza da alimentare un equivoco, l’idea che realizzare un lungometraggio così sia in fondo semplice. Eppure la tenerezza visiva dei suoi protagonisti è frutto della stratificazione emotiva che ogni vero artista costruisce in una vita intera, non nella semplice preproduzione di un film. Le domande sulle proprie origini, il desiderio di sentirsi parte di una tradizione, la voglia di incarnare l’eredità di qualcuno, di rappresentarla con i mezzi che caratterizzano la propria vita. In quest’apparente piuma, accompagnata dalle musiche di Nicola Piovani che affronta per la prima volta un film animato, c’è una tale solidità che le stoccate più amare trovano posto naturalmente senza avvelenare la visione più del necessario: i messaggi contro un clero approfittatore, la crudeltà del razzismo in Francia verso gli Italiani, la morte.

Manodopera sa toccare il sublime parlando di concretezza e mettendola in scena, con la consistenza materica affascinante della stop-motion, con la forza di chi sa guardare oltre gli eroi, per disseppellire qualcosa di persino più roccioso. Una sterminata dignità.

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