Sì, Chef!: La brigade

Louis-Julien Petit

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Cathy è una chef quarantenne che ama il suo lavoro e sogna di aprire un giorno un ristorante stellato. Purtroppo per lei non va tutto liscio e, a causa di conti e complessità organizzative, la donna deve fronteggiare sin da subito gli ostacoli del suo mestiere.
DATI TECNICI
Regia
Louis-Julien Petit
Interpreti
Audrey Lamy, François Cluzet, Fatou Kaba, Chantal Neuwirth, Yannick Kalombo, Amadou Bah, Mamadou Koita, Alpha Barry, Chloé Astor, Yadaf Awel, Demba Guiro, Boubacare Balde
Durata
97 min
Genere
Commedia
Sceneggiatura
Louis-Julien Petit, Liza Benguigui, Sophie Bensadoun
Fotografia
David Chambille
Montaggio
Nathan Delannoy, Antoine Vareille
Musiche
Laurent Perez del Mar
Distribuzione
I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection
Nazionalità
Francia
Anno
2021
Classificazione
Tutti

Presentazione e critica

Cathy è una sous-chef con il sogno di aprire un ristorante. Quando si troverà in difficoltà accetterà un lavoro come cuoca per minorenni migranti. Un lavoro che piano piano le piacerà: sarà il modo con cui saprà contagiare i giovani con il suo amore per la cucina e per avere lei stessa consapevolezza sul tema della migrazione e dei rimpatri.
Madeleine de Proust è un termine francese che indica un oggetto, un colore, un sapore o un profumo capace di evocare ricordi speciali del passato.

La sous-chef Cathy sta guarnendo un piatto che le sta a cuore mentre la sua chef la gela imponendole la propria idea di guarnizione. È così che va la quotidianità lavorativa di Cathy, il sogno di aprire un ristorante tutto per sé ha ceduto ormai posto a una continua frustrazione. Tutto può immaginare tranne che la soluzione sia la Brigade del titolo, un gruppo di minori migranti (così detti irregolari) a cui trasmettere giorno per giorno tutta la passione per la cucina e da cui in cambio imparare tanto, a livello umano soprattutto. Saranno loro a restituirle la genuinità di un mestiere fatto con le mani, con amore e con la voglia di condividere e prendersi cura degli altri.
Parte come fiaba buonista il nuovo film di Louis Julien-Petit, già autore e regista di Le invisibili sul tema della disobbedienza civile. Se lì lo sfratto di un centro di accoglienza per donne provocava per reazione l’apertura di uno sportello clandestino, qui la minaccia di rimpatri forzati fa scattare la voglia di dedicarsi fino in fondo a questi ragazzi migranti, volenterosi e pieni di entusiasmo, fino a esporli mediaticamente durante un reality di cucina.
François Cluzet di Quasi amici e Audrey Lamy di Le invisibili fanno il resto, confermandosi interpreti d’eccezione che nei panni del supervisor dei ragazzi l’uno, e della chef militante l’altra, sanno convincere e farsi ben volere. Merito di una commedia sociale veramente deliziosa, calmierata nei toni e con una punta di denuncia notevole, mai retorica e sempre sul filo dell’equilibrio narrativo tra toni leggeri e drammatici.
La fiaba cede progressivamente il passo a uno sguardo più allargato sul dramma contemporaneo dei rimpatri forzati e La Brigade si rivela in grado di restituire a chi guarda tanto la lievità dell’intrattenimento quanto l’urgenza della riflessione, specie sulla miopia di certe politiche che finiscono per stroncare sul nascere nuove carriere, vite, amicizie e sogni.

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Sì, Chef!: La brigade è una commedia francese, ironica ed esilarante, con il compito gravoso d’interrogare il pubblico riguardo la delicata questione degli immigrati stranieri, minori non accompagnati. Nel suo incipit ci offre uno spaccato del frenetico mondo dell’alta cucina, per poi divenire una sorta di documentazione filmica di fatti reali. La protagonista Cathy (la bravissima Audrey Lamy) ribelle e testarda, si ritrova da sola a cercar lavoro…Dalle scenografie eleganti e glamour del lussuoso ristorante di lusso, la nostra eroina è catapultata nella fatiscente cucina di un centro di accoglienza. La cinepresa diventa strumento di osservazione del vissuto quotidiano ma gli aspetti tragici vengono edulcorati dalle situazioni “comiche”. Il sogno di Cathy deve passare attraverso un emblematico annichilimento della sua arte: la nouvelle cuisine si fa mensa per poveri. “Mangiare? Che mangino solo ravioli e sugo in scatola, visto che per ciascuno lo Stato dà pochi euro” dice Lorenzo (l’efficace François Cluzet) a una affranta Cathy. Gli esterni diroccati e solitari fanno pensare alle “banlieue” francesi dove la gioventù cresce a pane e calcio: lo stesso sport che Lorenzo (il direttore del centro) usa come metodo educativo per i ragazzi. Alcuni di loro imparano avidamente la lingua francese sotto la guida di Sabine (l’esilarante Chantal Neuwirth) patita delle “star chef televisive”. La talentuosa Cathy ha il difficile compito di dare un futuro a quei giovanissimi. Si salveranno dal rimpatrio, al grido di: Sì, chef?.

La diretta tv e la denuncia sociale: Nel bel mezzo di una “diretta tv”- alla quale partecipano Cathy e gli altri due migliori chef – pur ricostruendo un “reality show” ai fini umanitari, l’effetto” film nel film” appare troppo prevedibile.
Volevo che ogni inquadratura fosse al servizio della traiettoria della protagonista. L’inquadratura iniziale, in cui Cathy Marie appare di spalle, sfocata, di fronte al mare, mostra che non sa dove si trova o dove sta andando. Volevo filmarla come una migrante, come se fosse appena sbarcata sulla terraferma. Lei è lì, di spalle, seduta di fronte al mare, a un bivio della sua vita. Il simbolismo è chiaro: oserà salpare o no? In altre parole, andrà avanti con la sua vita o no? Questa inquadratura contrasta con quella che chiude il film, in cui il personaggio si trova di fronte a noi e osa persino guardare in macchina, come per stabilire un legame con lo spettatore. All’inizio del film, i movimenti della telecamera partono da terra. Man mano che la storia procede, si alzano sempre di più, fino a raggiungere l’altezza della protagonista. Volevo iniziare con inquadrature esterne molto ampie – turbine eoliche, il mare – per mostrare che Cathy Marie è minuscola rispetto alla vastità del mondo. Poi c’è il contrasto dell’inizio del film con il centro in cui si ritrova rinchiusa, rappresentato attraverso le inquadrature dalle finestre. Queste la costringono a fermarsi per tutta la durata della storia per sviluppare il suo vero talento.

locchiodelcineasta

Presentato con un film ‘gastronomico’, in realtà Chef è un racconto di tutt’altri ingredienti. Tanti e molto diversi tra loro, non necessariamente compatibili, ma decisamente ben assemblati, soprattutto tenendo in mente l’obiettivo finale. Che e’ quello di coinvolgere il pubblico in un road movie catartico, colorato e profumato quanto familiare e umano. E nel quale la cucina è una scusa, un tramite nella creazione di un rapporto padre-figlio. Il percorso non è solo quello che ci porta da Miami a New Orleans, fino a Austin, ma anche quello tra pietanze di ogni tipo, raramente cucinate, più mostrate come strategici impiattamenti, che – come detto (e come la mancanza di fuoco ai fornelli conferma) – il pathos, in questo film, sta altrove. La retorica del cibo e del valore della semplicità è emblematicamente rappresentativa di quel che si vorrebbe fossero i rapporti umani, e si traduca in una narrazione basica che funziona, anche se non sempre e non fino in fondo.
In nome di questa priorità si abbandona ogni altra possibilità: dalla tensione erotica tra i personaggi, alle possibili delusioni amicali fino a possibili svolte narrative che esaurirebbero ogni altra deriva. Tutti spunti ignorati, sapientemente, da Favreau, che ha dimostrato ancora una volta di essere un professionista serio nelle sue preparazioni, a prescindere dai risultati raggiunti. Una lunga fase di studio (di recupero di molti documentari sul cibo e settimane di addestramento tra ristoranti e chioschi californiani) che – per quanto non volesse fare di lui un cuoco – gli ha permesso di dare credibilità al suo ‘Jefe’, Carl Casper, soprattutto nella indispensabile manualità.

Uno degli elementi che anche la famosa casalinga di Voghera ha ormai imparato a riconoscere, quanto meno a giudicare, dopo ore e ore di trasmissioni dedicate alla cucina dai network televisivi di tutto il mondo. Avere a che fare con questo pubblico non sarebbe stato facile altrimenti, e sarebbe stato impossibile per il furbo Jon mettere poi in scena il sottotesto anche satirico dedicato alle mode che circondano tutti noi. Dai Reality gastronomici alla netiquette (e le psicosi) da social networking, fino alla più recente e ancora poco sfruttata del ‘Truck food’.
Protagonisti di questa sciarada, a partire dal critico culinario dal nome ammiccante, Ramsey Michael, poco credibile come tale (palesemente meno preparato del cuoco che critica… forse per dare una frecciatina anche alla stampa, che non fa mai male) ma splendidamente interpretato da un Oliver Platt che, oltre ad aver preso a modello il proprio fratello Adam, vero critico culinario, è solo il primo degli eccellenti camei e coprotagonisti che arricchiscono questo film: Scarlett Johansson (alla cui scollatura è dedicata persino una recensione di Ramsey), Robert Downey Jr., Dustin Hoffman, Bobby Cannavale, John Leguizamo e Sofía Vergara, di nuovo splendida e simpaticissima dopo il Gigolo’ di Turturro.

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